Il coraggio di imporre gli artisti italiani

Senza precipitare nella vacua retorica e arrivare a dire, come ama fare chi vive di consenso immediato, "prima gli italiani", il problema c'è ed è questo il momento per affrontarlo

Il coraggio di imporre gli artisti italiani

Senza precipitare nella vacua retorica e arrivare a dire, come ama fare chi vive di consenso immediato, «prima gli italiani», il problema c'è ed è questo il momento per affrontarlo. Il problema è presto detto, ma per inquadrarlo occorrono un paio di premesse. La prima. La musica classica in generale e la lirica in particolare sono tra le principali ragioni della popolarità dell'Italia nel mondo. Siamo conosciuti come il Paese del «bel canto» e riconosciuti come la patria del melodramma. L'italiano è la lingua universale della musica. Ma da oltre un anno, e questa è la seconda premessa, gli interpreti italiani non battono chiodo. Al pari del turismo, infatti, lo spettacolo dal vivo è il settore più colpito dalle conseguenze della pandemia. Un danno colossale, stimato dall'Agis nell'ordine dei 600 milioni di euro. Valorizzare gli artisti italiani sarebbe dunque un modo per coltivare un elemento cardine dell'italianità e per sostenere un settore in crisi. Non lo stiamo facendo. Nei giorni scorsi Ariacs e Assolirica hanno lamentato che il cartellone estivo del Festival Puccini di Torre del Lago è fin troppo ricco di nomi stranieri. È quel che accade nella programmazione della maggior parte dei teatri, a partire dalla Scala. Lo scorso dicembre, in piena pandemia, il tempio della lirica mondiale ha messo in scena per la prima un «A riveder le stelle» debordante interpreti stranieri. Gianluca Floris, presidente di Assolirica, prevede che «per i prossimi vent'anni la lirica parlerà slavo, tedesco e americano. Non più italiano». Franco Silvestri, presidente di Ariacs, denuncia che «questa sovrabbondanza di artisti stranieri non può non essere collegata alla presenza di governance non italiane in diverse istituzioni musicali italiane». Chiosa il soprano Francesco Sassu: «All'estero succede il contrario, vengono valorizzati i talenti locali senza che nessuno si ponga il problema del provincialismo». C'è del vero. Nella patria del libero mercato, ad esempio, gli Stati Uniti, l'80% dei ruoli è riservato ad interpreti americani. Il problema, dunque, c'è. Affrontarlo significherebbe coltivare l'identità nazionale e sostenere un settore in drammatica difficoltà.

Non sarebbe male se, nel quadro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il ministro Franceschini prevedesse l'istituzione di una scuola di alta formazione lirica e incoraggiasse (per non dire obbligasse) fondazioni, teatri e festival a privilegiare gli interpreti italiani.

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