Corruzione, Renzi esulta. Ma pene più dure non evitarono Mani Pulite

Il governo s'intesta la svolta legalitaria dopo le cosiddette "leggi ad personam". Dimenticano che nel 1992 il reato di falso in bilancio non arginò gli scandali

Matteo Renzi al nuovo porto turistico di Salerno
Matteo Renzi al nuovo porto turistico di Salerno

È tutto un tripudio. Uno sventolio di bandiere. Da Riga il premier Matteo Renzi si aggiusta la corona sulla testa con parole altisonanti: «È una svolta oggettiva, l'Italia torna dalla parte della legalità». Come se il Paese negli anni scorsi fosse stato sommerso dalla melma del crimine. E si fosse trasformato in un polveroso Far West, regno per corrotti e corruttori. Andrea Orlando, ministro della Giustizia è meno enfatico, ma il concetto è sempre quello: «La nuova legge anticorruzione da oggi rende più forte l'Italia, il governo mantiene gli impegni». Squilli di trombe per la legge più annunciata degli ultimi anni, con le prediche infiammate del presidente del Senato Pietro Grasso e il contagiorni di SkyTg24 , manco il countodwn riguardasse non l'approvazione del falso in bilancio, ma l'apertura dell'Expo o la finale di Champions.

Peccato che fra un vocabolo e l'altro, in un turbinio di aggettivi, si sia persa la memoria. E nessuno ricordi che ai tempi di Mani pulite il falso in bilancio era reato, esattamente come oggi, e le norme fossero severe. O, se si preferisce, non ancora modificate dalle famose leggi ad personam del Cavaliere. L'apparato repressivo funzionava senza se e senza ma, le manette venivano strette con una certa facilità, la custodia cautelare durava settimane e anzi mesi. E però la corruzione dilagava, come e più di oggi. C'era Di Pietro, lo sbirro con la toga, e con lui c'era Davigo le cui frasi acuminate come la punta di una lancia, vere o verosimili che fossero, erano una sorta di scioglilingua, di mantra, di stella polare di una cultura che ora, sia pure all'ingrosso, si potrebbe definire giacobina. E di Davigo tutti ripetevano un adagio che la diceva lunga sulla lunghezza d'onda del Paese: «Non esistono innocenti, ma colpevoli non ancora scoperti».

Cosi gli arresti si sono susseguiti per anni, ma la fabbrica della corruzione non è stata smantellata. Il verbale di un pentito veniva portato come una reliquia da un processo all'altro e bastava per inchiodare il colletto bianco, il potente di turno. Da un dibattimento all'altro, una deposizione viaggiava come un Frecciarossa da un'aula all'altra e veniva letta come il Vangelo. Il controesame c'era e non c'era, gli avvocati protestavano un giorno sì e l'altro pure perché non potevano fare il loro mestiere e contestare quelle affermazioni ripetute all'infinito di tribunale in tribunale. Così funzionava il sistema, con un gip unico, Italo Ghitti, che firmava i provvedimenti cautelari a pacchi. Ma guai a parlare di cambiamento, di svolta, di cross examination , di diritti della difesa violati. I magistrati rispondevano che non si cambiano le regole in corso, la partita di football si gioca in undici e dura novanta minuti. Punto. Anzi molti avrebbero voluto il pugno di ferro. Condanne ancora più esemplari, celle trasformate in catacombe, pene senza fine. E gogna per i ladri che comunque erano idealmente appesi alla forca della riprovazione generale.

Così per mesi, così per anni, ma il bacillo non è stato sconfitto, la malattia non è stata debellata, l'illusione di comprimere il crimine della corruzione è rimasta tale. Scandali. Uno dietro l'altro, come un treno con troppi vagoni. Da Greganti a Fiorito e ancora a Greganti, in un gioco dell'oca che avrebbe dovuto far riflettere. E invece no. Renzi twitta la sua indignazione e ora il suo plauso per la legge spartiacque, tutti inneggiano alle nuove norme che ripristinano, così si dice, lo Stato di diritto. Che la parentesi berlusconiana avrebbe compromesso con troppe norme al ribasso.

Pochi, pochissimi che facciano notare l'ovvio: la corruzione scende non se si alza l'asticella delle pene ma se si sfrondano leggi, se si semplificano le norme, se si rendono trasparenti gli appalti che sono tutto un tornante, tutta una curva, tutto un tormento e un'occasione per trattare sottobanco. Niente da fare. L'opinione pubblica, come nota un rapporto Ernst&Young , si convince che questa sia la strada giusta. Avanti con le grida manzoniane. In attesa della prossima Tangentopoli.

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