Una farsa la trattativa tra Stato e mafia. Assolti dopo 10 anni il senatore dell'Utri e i servitori dello Stato.

La Corte d'appello di Palermo proscioglie anche i generali Mori e Subranni e il colonnello De Donno. Crolla l'ultimo pezzo del "teorema" basato sui pentiti che era già stato sgretolato dalle sentenze favorevoli a Mannino e Mancino.

Una farsa la trattativa tra Stato e mafia. Assolti dopo 10 anni il senatore dell'Utri e i servitori dello Stato.

U na vergogna durata oltre 10 anni si sgretola nel pugno di minuti che basta al giudice Angelo Pellino per leggere la sentenza d'appello. Ed è una sentenza che è una assoluzione è una condanna insieme. Perché assolve i servitori dello Stato che sono stati calunniati, infangati, distrutti: eroi della lotta al terrorismo e al crimine come i carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno; e assolve Marcello Dell'Utri, accusato di avere ricattato e minacciato in nome di Cosa Nostra un amico fraterno come Silvio Berlusconi. Ma mentre assolve tutti gli imputati, la sentenza condanna senza appello il circo giudiziario, politico e giornalistico che per più di un decennio ha raccontato al Paese la favola cupa di uno Stato sceso a patti con Cosa Nostra, dipingendo un intreccio orrendo di accordi e di favori. Da galantuomini non più in grado di difendersi come i poliziotti Vincenzo Parisi e Arnaldo La Barbera, come il magistrato Francesco Di Maggio la macchina del processo sulla Trattativa non ha risparmiato nessuno, arrivando fino a lambire il Quirinale, punto d'approdo finale in questo furore investigativo della compromissione con la mafia.
E invece non era vero niente.
Alle 17,36 di ieri pomeriggio, dopo una camera di consiglio durata tre giorni e tre notti, la Corte d'assise d'appello di Palermo assolve tutti gli imputati che tre anni fa in primo grado si erano visti infliggere pene brutali per un reato gravissimo: dodici anni a Dell'Utri, ex parlamentare di Forza Italia, altrettanti agli ex comandanti del Ros dei carabinieri, i generale Mario Mori e Antonio Subranni, otto al colonnello De Donno. In appello la Procura generale palermitana aveva chiesto la conferma integrale delle condanne, con una requisitoria sferzante sul «patto scellerato» ma priva di contenuti. Perché oggi ancora non si è capito quali concessioni lo Stato avrebbe offerto a Cosa Nostra, quali delle deliranti richieste del «papello» di Totò Riina e Bernardo Provenzano siano mai state se non accolte almeno prese in considerazione, mentre invece i boss finivano uno dopo l'altro in carcere e governi di ogni colore emanavano leggi sempre più severe contro i crimini mafiosi.
Ma questo in primo grado non aveva impedito le condanne degli imputati eccellenti, mentre uscivano di scena in un modo o nell'altro i mafiosi quelli veri: morti al 41 bis Riina e Provenzano, liberato grazie al pentimento e alla prescrizione Giovanni Brusca, prescritto Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo, e propalatore di veleni e calunnie. Così l'unico uomo di Cosa Nostra sul banco degli imputati era rimasto Leoluca Bagarella, cognato di Riina, condannato in primo grado a ventott'anni: ieri gli scontano un anno, e - insieme ad Antonio Cinà, medico di Riina - diventa l'unico condannato di questo enorme spreco di soldi. Lui, un mafioso già sepolto dagli ergastoli.
E d'altronde se avesse confermato le condanne di Mori e degli altri carabinieri, la Corte d'assise palermitana sarebbe andata in rotta di collisione con altre sentenze che nel corso di questi anni hanno spazzato via altri pezzi cruciali del teorema della trattativa: l'assoluzione nel merito con formula piena di Calogero Mannino, l'ex ministro democristiano che il teorema indicava come il perno dell'asse di congiunzione tra mafia e Stato e che si è tirato fuori dal filone principale col rito abbreviato; le assoluzioni, anch'esse con formula piena, del generale Mori dalle accuse di non avere perquisito subito il covo di Riina, e di non avere arrestato Provenzano nel 2005. Erano tutti tasselli cruciali del castello costruito dalla Procura palermitana affastellando pentiti su pentiti per sostenere l'idea di uno Stato dal doppio volto, permeato non da singole infedeltà ma da un sistema trasversale di collusioni in cui gli stessi uomini che di giorno lottavano contro la mafia di notte disfavano la tela accordandosi col nemico. Ieri, dopo i tasselli, crolla l'intero castello.
«Il processo sulla trattativa è stato spazzato via dalla sentenza di assoluzione», chiosa l'ex presidente del Senato e ministro Nicola Mancino, ex imputato eccellente del processo Trattativa assolto già in primo grado (sentenza non appellata dai pm) dall'accusa di falsa testimonianza. Uno dei momenti più bui della storia di questo processo, con Mancino, non indagato, intercettato al telefono con l'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Pur di trascinare insieme alla sbarra uomini dello Stato e boss la procura di Palermo non si è fermata in tanti anni di fronte a nulla, neppure di fronte al presidente della Repubblica. Neppure di fronte al conflitto istituzionale sulle bobine di quei colloqui, poi distrutte. «Aspettiamo le motivazioni prima di esprimere ogni valutazione», il commento di rito del pg Giuseppe Fici. Esultano i difensori.

Sorprendente, forse per lo choc, il commento dell'ideatore del teorema Trattativa, l'ex pm Antonio Ingroia: «Da una parte la Corte d'appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall'altra assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c'è stata e che non è una bufala». O che, più che altro «il fatto non costituisce reato». Peccato che la procura, dietro a questo non reato, sia andata dietro per anni.

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