"Così i giornalisti rischiano il bavaglio"

Il sindacato contro il magistrato che vuole 250mila euro da un cronista per non andare a processo: "È un'intimidazione"

"Così i giornalisti rischiano il bavaglio"

Milano - Quando la pezza è peggiore del buco. La vicenda del cronista calabrese raccontata ieri dal Giornale è solo la punta dell'iceberg di un fenomeno che rischia di minare definitivamente alle basi la libertà di stampa in Italia. Il giornalista Claudio Cordova nei giorni scorsi ha ricevuto una lettera da un magistrato antimafia nella quale si chiedono 250mila euro di risarcimento per non finire a giudizio per diffamazione. «È una prassi diffusa più di quanto non si pensi - commenta al Giornale un legale esperto in diffamazioni che preferisce restare anonimo - nella mia esperienza di avvocato mi sono imbattuto più volte su casi del genere. Chi si sente diffamato, prima di esporre la controparte a spese giudiziarie fa sapere di essere stata offesa e invoca un risarcimento stragiudiziale bonario, che di solito tiene conto della presunta entità del danno come farebbe un giudice. Se la parte, l'editore o il giornalista, sa di avere torto, si mette d'accordo e paga. Queste transazioni capitano con una certa frequenza - dice il legale - è una forma usuale per prevenire una causa. Certo, se il giornalista pensa di aver ragione risponde “fai pure” e poi a processo si vedrà». «Ma nella lettera non c'è scritto come l'avrei diffamato - si difende il cronista finito nel mirino del giudice - altrimenti avrei fatto una rettifica. La lettera sarà prassi, ne ho ricevuto di lettere da avvocati ma non con queste modalità».

Anche il sindacato dei giornalisti calabresi non ci sta: «È inquietante che in una terra come la Calabria, in cui si chiede ai cittadini di avere piena fiducia nella giustizia, un magistrato antimafia pretenda da un giornalista un ingente risarcimento a prescindere dall'azione penale o civile», dice al Giornale Carlo Parisi, segretario del sindacato giornalisti della Calabria e vicesegretario uscente della Federazione nazionale della stampa. Il cuore del problema, ancora una volta, è la legge sulla diffamazione ferma in Senato. Le norme approvate alla Camera hanno sì eliminato il carcere (anche dopo il caos scatenato dal caso che ha coinvolto il direttore di questo quotidiano, Alessandro Sallusti) ma in cambio la morsa che si è stretta intorno ai giornalisti rischia di essere letale. È stato presentato un emendamento che modera il diritto all'oblio, ma non è detto che passi. I direttori dei siti online rischiano di non poter più scrivere una riga, la rettifica non ammette controrepliche e soprattutto, una volta abolito il carcere, non è stato messo un tetto al risarcimento né un argine alle cosiddette «querele temerarie», annunciate solo per spaventare i cronisti.

«È un vero e proprio strumento di intimidazione e di censura della libertà di stampa contro i cronisti di frontiera - rincara la dose Parisi - senza editori importanti e disposti a sostenerne le spese di giudizio molti giornalisti d'inchiesta corrono il serio rischio dell'autobavaglio preventivo». Basti pensare che ieri nessun quotidiano calabrese ha riportato la notizia della querelle.

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