Covid, Israele va in piazza. Il vero obiettivo è Netanyahu

Le proteste per la nuova chiusura e i soldi a pioggia. Strumentalizzate da chi vuole far fuori il premier

Covid, Israele va in piazza. Il vero obiettivo è Netanyahu

Il virus è tornato, e la piazza ribolle contro Netanyahu: a Tel Aviv, e a Gerusalemme davanti alla casa del primo ministro, una piazza disperata per la disoccupazione e la parziale chiusura delle imprese che minaccia di diventare totale. È una folla di disoccupati, negozianti, assistenti sociali, genitori in crisi, giovani furiosi. Per il desiderio di tornare al lavoro, a scuola, a viaggiare, a fare sport, a vivere insomma; in altri casi, addobbati in magliette e bandiere nere, sono decisi a ottenere con la rabbia della piazza quello che le elezioni non gli hanno dato, ovvero che Bibi sparisca dalla scena. E lo chiedono con slogan e cartelli. Non importa loro, l'uno contro l'altro spesso senza maschere, di rischiare con l'affollamento incosciente di aumentare la possibilità di contagio. E lui è di nuovo il protagonista, Netanyahu, mentre il suo gradimento scende, accusato di rinchiudere la popolazione di Israele nella gabbia del coronavirus (il prossimo week-end il lockdown sarà totale), e dall'altra di essere lo sprecone, di distribuire soldi a pioggia a chiunque, non importa quale sia il reddito. È stata l'ultima mossa di Netanyahu, per un ammontare notevole per l'economia israeliana, più di sei miliardi di shekel (circa 1,5 miliardi di euro): 750 shekel per i singoli fino a 3mila shekel e più per chi ha da tre figli in su.

È evidente che chi fomenta la folla spesso non ha altro scopo che quello di fare fuori l'odiato nemico di cui prima del governo di coalizione Benny Gantz diceva «tutti fuorché lui». L'incitamento e la diffamazione anche da parte del capo dell'opposizione Yair Lapid arriva fino alla giustificazione della violenza di piazza, l'irrazionalità delle accuse è a volte palese e testimonia due tendenze: quella a riaprire nonostante il virus, e quella a cacciare con il moto di piazza Netananyahu.

I casi complessivi ammontano ormai quasi a 50mila, 1.595 nel week end appena trascorso, i morti sono ormai 406. Nel week-end sono stati fatti 25.033 test. Numeri troppo grandi per un Paese che aveva attraversato a vele spiegate la prima fase. Con Bibi splendevano a febbraio-marzo esperti che non erano i suoi ministri, il premier chiuse subito gli aeroporti e impose la chiusura; i burocrati esperti di allora sono stati sostituiti dalla nuova amministrazione insediatasi il 17 maggio. I ministri sono altri: Naftali Bennet che fece vasto uso, da ministro della Difesa, dell'esercito, ha lasciato il posto a Benny Gantz. Come è avvenuto il salto indietro? Con la scarsa pianificazione per aree di contagio, con la sofferenza delle strutture sanitarie troppo cariche, la libertà data per scontata troppo presto e il tipico impulso israeliano di vivere pienamente ogni angolo di una storia segnata da perdite e guerre: il collettivismo, la riapertura delle scuole, dei luoghi di lavoro e di vacanza, la messe di eventi familiari specie nelle comunità religiose, e anche la lentezza nell'individuare i focolai di infezione oltre allo scontro continuo che ha reso impossibile un gruppo costante di lavoro. E all'orizzonte si vede il fumo delle esplosioni in Iran, la discussione aspra sulla sovranità nei territori.

No, non è la Svizzera, questo è Israele, il gioco duro è un classico: ricordiamoci lo

sgombero da Gaza e le manifestazioni disperate contro Sharon, propaggine di lotte interne immani fin dalle cannonate di Ben Gurion alla nave «Altalena» di Begin... È dura, c'è il virus e c'è il coltello fra i denti contro Bibi.

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