Dai jeans alle mancate urla d'aiuto: se le follie dei giudici assecondano le belve

Spesso la mano morbida delle toghe permette ai violentatori di farla franca

Dai jeans alle mancate urla d'aiuto: se le follie dei giudici assecondano le belve

A dare la linea, come è noto, fu nel remoto 1999 la Suprema Corte di Cassazione, con quella che è passata alla storia come la «sentenza dei jeans»: se una ragazza porta i blue jeans non si può ipotizzare uno stupro nei suoi confronti, visto che si tratta di un capo di abbigliamento che non può essere sfilato «senza la fattiva collaborazione di chi lo porta». Per questo un istruttore di scuola guida di Potenza venne assolto con formula piena.

Successe, come era giusto, un mezzo finimondo. Ma da allora, qua e là, una certa vena garantista, una tendenza a giustificare, a distinguere, a sottovalutare, torna a fare capolino nelle decisioni della magistratura di fronte agli episodi di violenza carnale. In genere fioccano gli anni di galera, a volte rifilati con spensieratezza fin eccessiva. Ma altrove accade il contrario. E sono queste stranezza a saltare agli occhi ora che della violenza sessuale si torna a parlare come di emergenza nazionale.

A benedire la mano morbida, d'altronde, è stata addirittura la Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittima e cancellata dal codice la norma che dal 2009 imponeva il carcere preventivo per gli stupratori di gruppo: eh no, dissero i signori della Consulta, bisogna distinguere di volta in volta. E così via, tutti a distinguere. Il terzo uomo di un stupro di gruppo su uno yacht alle Eolie viene assolto, perché se l'era spassata per ultimo, seguendo l'esempio degli amici; uno dei profughi che a Trieste erano stati arrestati per lo stupro di una dodicenne viene scarcerato, perché non c'è prova che abbia violentato personalmente la ragazzina.

Ma anche quando non c'è di mezzo il branco, quando il pervertito e la sua vittima si sono trovati a tu per tu, la verve assolutoria talvolta fa capolino. Già nel 2006 la Cassazione aveva avuto la mano morbida nei confronti di un tossicomane sardo che aveva stuprato la figlia della compagna: fato meno grave, scrissero i giudici, perché la ragazza non era vergine. Follie in toga. E basta frugare negli ultimi mesi di cronaca per trovare sfilze di decisioni che fanno sobbalzare. A Torino viene assolto l'uomo accusato di avere violentato una infermiera della Croce Rossa: per il giudice «il fatto non sussiste» perché la donna si è limita a dire «no» senza gridare. Sempre a Torino, un immigrato che si era masturbato davanti a una donna su un autobus viene assolto dall'accusa di violenza, perché non c'è stato contatto fisico. A Firenze l'indiano che segue una ragazza all'uscita dal pub dove lavora, le stringe un laccio al collo e cerca di violentarla viene scarcerato dopo appena due giorni di carcere. Casi singoli, si dirà.

Ma che dire dell'episodio più incredibile di tutti, lo stupratore che a Torino la fa franca perché in dieci anni la Corte d'appello non riesce a celebrare il processo e così tutto si prescrive? In quanti, nel palazzo di giustizia torinese, potevano vigilare e intervenire, e invece hanno chiuso gli occhi?

E insomma la sensazione è che se gli stupri sono ormai un fenomeno fuori controllo, che rovina la vita di migliaia di vittime, molti giudici si sentano chiamati a fare la loro parte. Altri non tanto.

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