«La Terza Guerra del Golfo cominciò la seconda settimana di febbraio del 2015 ». Così, probabilmente, fra qualche anno, gli storici racconteranno l'inizio del terzo atto della guerra dichiarata dagli Stati Uniti d'America al Terrore islamico. Una guerra che per durata ha già scavalcato in classifica quella del Vietnam (58mila soldati Usa morti nel quindicennio che va dal 1960 alla caduta di Saigon, 30 aprile 1975) e di cui nessun analista è oggi in grado di prevedere l'evoluzione e la fine. Posto che una fine sia ragionevolmente prevedibile, e non ci si debba avvezzare invece a una idea di guerra del tutto inedita: una guerra di mondi inconciliabili in cui non si vince e non si perde, ma in cui si «resiste»; e tuttavia un conflitto in cui, a differenza della «Guerra Fredda» (anche lì si opponevano due mondi inconciliabili) si muore davvero.
L'atto fondante della Terza Guerra è la proposta inviata ieri da Barack Obama al Congresso per chiedere l'autorizzazione all'uso della forza militare contro lo Stato islamico. Un'entità che rappresenta «una grave minaccia per il popolo e la stabilità dell'Irak, della Siria, dell'intero Medio Oriente e per la sicurezza nazionale americana».
Nel testo la Casa Bianca chiede l'autorizzazione a operazioni che escludano «un'offensiva duratura con le truppe di terra» e limiti l'impegno a tre anni. Una formula ambigua, come si vede, che non esclude l'utilizzo di truppe di terra, come raccomandano i generalissimi del Pentagono, ma che punta a un compromesso teso a ottenere il sostegno dei Democratici e dei Repubblicani. Laddove i primi temono l'idea di una «escalation» (do you remember Saigon?) e i secondi non vogliono escludere l'uso delle truppe di terra, con contorno di «American snipers» (per stare all'attualissimo film di Clint Eastwood), visto che senza truppe di terra, come insegna anche la più scalcagnata teoria militare, le guerre non si vincono.
A volerla raccontare dall'inizio, questa guerra infinita, dovremmo tornare al 2 agosto 1990, data di inizio della prima Guerra del Golfo che si proponeva di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait invaso dalle truppe di Saddam Hussein con l'operazione «Desert Storm» e la grinta del generale Schwarzkopf. Da allora, tra operazioni militari «coperte», «no fly zone» ed embarghi, gli americani non hanno mai abbandonato la scena, inanellando una serie di successi tattici e insuccessi strategici che, come al tempo del Vietnam, hanno suscitato vigorose perplessità in un'opinione pubblica che non ha mai dimenticato i fantasmi di Saigon.
Ma è con la Seconda Guerra del Golfo (marzo 2003-dicembre 2011) varata per togliere dalla scena Saddam Hussein e il suo regime che la crisi mediorientale si incista, mutando pelle e trasformandosi strada facendo in una guerra contro gli «invasori», contesto che suona come un déjà vu proprio del Vietnam. Guerra che, come in un gioco di scatole cinesi incubava fin dall'inizio il conflitto per bande tra la componente sunnita, orfana di Saddam, e quella sciita, protetta e armata da Teheran. Fino alla variante iper terroristica, sanguinaria e a suo modo «patriottica» dell'Isis: un'idea, una bandiera (quella nera del Califfato) capace di agglutinare l'anima insurrezionalista, antioccidentale, e dunque antidemocratica di migliaia di giovani musulmani sparsi per il mondo, orfani di Osama Bin Laden e in cerca di identità. Convinti che solo il terrore della spada e del pugnale per sgozzare i nemici fermerà il «grande Satana» (copyright dell'ayatollah Khomeini, buonanima) e i suoi lacchè.
Il terzo atto, quello aperto ieri da Obama, rischia di essere il più difficile. Costerà altri morti (15mila, secondo la Cbs, sono i morti Usa tra Afghanistan e Irak) e altri miliardi di dollari.
Una guerra (la riedizione di quella formalmente dichiarata chiusa tre anni fa) difficile da vincere; ma che consentirà all'Occidente di «resistere» alla furibonda pressione degli inturbantati armati di kalashnikov, di scimitarra e di smartphone.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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