Giallo di Arce, delitto perfetto? Diciotto anni di indagini, sedici per riesumare il cadavere e disporre nuove perizie, 21 per assolvere tutti e cinque gli imputati. Il giorno dopo la sentenza choc della Corte di Assise di Cassino, restano dubbi e misteri su chi ha ucciso Serena Mollicone. Una ragazza piena di ideali, Serena. Voleva fermare gli spacciatori di droga che stavano uccidendo i suoi compagni di scuola, gli amici. Voleva denunciare il figlio del comandante della stazione dei carabinieri, Marco Mottola. Movente perfetto per un omicidio. E la mattina del primo giugno 2001, dopo essersi sottoposta a un esame clinico a Frosinone, un'ortopanoramica, entra in caserma decisa a tutto. La vede arrivare il brigadiere Santino Tuzzi, verso le 11, e fino a quando rimane in caserma, alle 14,30, non la vede uscire. Tuzzi lo mette a verbale ma tre giorni prima di essere ascoltato in Procura si spara alla tempia. Un suicidio anomalo. Cos'altro sapeva? Per la famiglia Mollicone molte cose. Cinque indagati alla sbarra, l'ex comandante dei carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco, il maresciallo Vincenzo Quatrale e l'appuntato Francesco Suprano. Tutti assolti. Per la giuria del Tribunale di Cassino manca la prova regina dell'omicidio, il Dna. Sul corpo di Serena, sullo scotch utilizzato per tappargli naso e bocca, sulla busta di plastica che l'ha soffocata non c'è traccia biologica di nessuno dei cinque. Solo un frammento di impronta digitale, pochi punti utili, che non appartiene né alla famiglia Mottola né agli altri carabinieri. Insomma, se effettivamente a provocare la lesione del cranio è stata una porta di legno, compatibile con quella dell'alloggio di servizio del comandante, nessuno può dire con certezza che a uccidere la 18enne siano stati loro. Per l'accusa le tracce, se ci fossero state, sono state cancellate. «A 21 anni dai fatti non c'è giustizia Serena - commenta l'avvocato Dario De Santis, legale della famiglia Mollicone -. Una sconfitta per lo Stato italiano che nella giustizia ha una delle sue funzioni cardine». Da Ilaria Cucchi è arrivato ieri un messaggio di sostegno: «Non mollarte, ma il prezzo sarà alto». A dir poco amareggiato Carmine Belli, il carrozziere di 38 anni arrestato nel 2002, condannato in due gradi di giudizio per l'omicidio e poi assolto in Cassazione dopo 19 mesi in carcere da innocente. «Non è stato mai risarcito né economicamente né moralmente. Dopo Serena e il papà Guglielmo (deceduto nel 2020, ndr). Carmine è la vittima viva di questo torbido giallo», spiega l'avvocato Nicodemo Gentile, legale di Belli. «Carmine - prosegue Gentile - ha vissuto la sentenza come un momento difficile.
Gli sono venuti in mente i fantasmi del passato, nei suoi confronti la giustizia ha mostrato un volto duro e ingiusto: i mesi di carcere non si possono dimenticare». L'uomo, convinto di aiutare nelle ricerche, si era presentato in caserma per raccontare di aver visto Serena. Da testimone era diventato l'unico accusato.
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