Dimissioni rinviate a oggi per il timore di mercati e spread. Poi lo scioglimento e voto il 2 ottobre

Lo sfogo del premier con i suoi collaboratori: "Avete visto che avevo ragione? Avete visto che non c'era agibilità politica?". Questa mattina alle 9 alla Camera formalizzerà l'addio. Poi un Cdm e salirà al Quirinale

Dimissioni rinviate a oggi per il timore di mercati e spread. Poi lo scioglimento e voto il 2 ottobre

Sono le 20.15 quando Mario Draghi lascia Palazzo Chigi, diretto - danno tutti per scontato - al Quirinale. Il premier, invece, vuole prendersi ancora qualche ora. Non tanto per decidere il «cosa», quanto per valutare il «come». Al Senato, infatti, tecnicamente ha portato a casa la fiducia (95 voti a favore su 133 partecipanti al voto). E anche se è del tutto ovvio che il suo governo è politicamente morto, il dibattito alla Camera previsto per questa mattina alle nove è ancora in calendario. Qualcuno si illude che la mossa del premier di rimandare di dodici ore l'inevitabile sia l'ultimo tentativo di trovare una soluzione alternativa ad una crisi di governo destinata a portare il Paese alle elezioni anticipate. In verità, Draghi non pare intenzionato a ragionare su eventuali piani B. E sia da Palazzo Chigi che dal Quirinale filtra la convinzione che la strada sia ormai segnata. La scelta di rimandare l'annuncio a questa mattina è per dare tempo ai mercati di metabolizzare la crisi italiana, visto che già a ieri sera lo spread dei Btp a due anni era ai livelli della Grecia e questa mattina Piazza Affari minacciava di crollare in apertura. Per non parlare del board della Bce in programma oggi e che dovrebbe varare il primo rialzo dei tassi dal luglio del 2011.

Questa mattina alla Camera, dunque, Draghi dovrebbe semplicemente chiedere d'intervenire prima della discussione generale e annunciare le sue dimissioni. Sarà interessante capire con che toni e, soprattutto, se l'ex banchiere deciderà di fare nomi e cognomi di chi ha deciso di non sostenere il suo governo oppure se userà un approccio più istituzionale. Tra M5s, Lega e Forza Italia - i tre partiti che ieri hanno deciso di non partecipare al voto di fiducia sulla mozione firmata da Pier Ferdinando Casini e appoggiata dal governo - è infatti iniziato l'inevitabile scarico di responsabilità. Dopo l'intervento a Montecitorio, Draghi convocherà un Consiglio dei ministri, comunicherà l'intenzione di dimettersi e salirà al Quirinale. Dove danno ormai per scontato lo scenario delle elezioni anticipate, con decreto di scioglimento delle Camere da parte del presidente della Repubblica e elezioni anticipate presumibilmente il 2 ottobre. Anche se Sergio Mattarella potrebbe respingere le sue dimissioni, così che Draghi resti nella pienezza dei suoi poteri finché non ci sarà un nuovo governo (che difficilmente, bene che va, potrà essere prima di novembre). Uno scenario che non appassiona l'ex Bce, che però non dovrebbe sottrarsi. Nel caso, si limiterà a chiudere il ddl Concorrenza (asciugato) e impostare una legge di bilancio light da lasciare a chi verrà. Di certo, però, da domani Draghi sparirà dai radar.

Un esito di questa crisi che in pochi immaginavano. Né Giuseppe Conte, che ha tirato il sassolino poi diventato slavina, e nemmeno Draghi, che fino alla fine - soprattutto nella replica - ha provato a trovare un punto di caduta. Come spesso succede in questi casi, infatti, il piano inclinato che si viene a creare quando gli equilibri sono instabili, rende le conseguenze imprevedibili. Conte ha accesso la miccia, il vulnus del voto sul Quirinale l'ha alimentata (a gennaio il Parlamento scelse scientificamente di non sostenere la corsa di Draghi) e la Lega - seguita da Forza Italia - l'ha cavalcata. Perché è vero che ieri mattina in Senato il premier ha avuto parole dure non solo per il M5s ma anche per il Carroccio, mostrando non molta lungimiranza politica se perfino un draghiano come Matteo Renzi - intercettato nel corridoio adiacente all'Aula - si è lasciato scappare un «ma come gli è venuto in mente di fare un discorso così?». La Lega, ovviamente, non si è lasciata sfuggire l'occasione. Forza Italia ha seguito. La palla di neve è diventata valanga e a nulla è valso il tentativo di riaprire al centrodestra fatto prima dal Colle nelle sue interlocuzioni informali e poi dal premier in Senato in sede di replica. Un intervento breve, nel quale ha puntato il dito contro il M5s, nella speranza che Lega e Forza Italia potessero rientrare. Niente da fare. Per dirla con Renzi, «Conte ha aperto la crisi, Salvini l'ha completata».

Oggi l'epilogo. Con un Draghi che alla fine ha voluto seguire l'iter e i tempi chiesti dal Quirinale.

Non solo perché era giusto parlamentarizzare la crisi, ma anche per mettere nero su bianco con un voto di fiducia le responsabilità. «Avete visto che avevo ragione io? Avete visto che non c'era agibilità politica?», si è lasciato scappare ieri a tarda sera in privato.

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