Quei padri vittime di un amore criminale

Discreti, silenziosi, divisi tra il dolore per la morte di un figlio e troppi dubbi atroci

Gli occhi puntano in basso, senza vedere. Occhi assorti. Che cosa passerà nei pensieri di Davide Stival, papà di Loris? Cammina al fianco della moglie Veronica. Infagottato in un giaccone di dolore. «Il padre invisibile» del caso di cronaca nera più mediatico dell'anno. La morte per strangolamento di Loris: stessi occhi e stessa timidezza del papà, al quale era molto attaccato, anche se lo vedeva poco perché faceva il camionista. Anzi, forse proprio per quello. Lui non parla, non piange, non urla davanti alle telecamere. Le versioni di lei sono contraddittorie, confuse. Lui le crede. Mostra di farlo. La sorregge, la accompagna.

È il destino di questi padri e mariti. Stare al fianco. Discreti, silenziosi. Immersi nell'abisso. Sprofondati dentro dubbi atroci sull'innocenza delle loro donne. Oppure disposti ad accettare la mostruosità che le ha colte per un momento. Desiderosi di ritrovare l'anonimato nel quale lenire il dolore. Come sarà stato per Stefano Lorenzi, marito di Annamaria Franzoni, condannata in via definitiva per l'omicidio del figlio Samuele. 30 gennaio 2002, il delitto di Cogne. Trasmissioni tv, giornali e libri di esperti traboccanti indagini, interrogatori, perizie, versioni. E pieni dei silenzi del papà di Samuele. Del marito di Annamaria. Un perito elettronico. Bisogna trovare la forza per ricominciare, per ricostruire. Trovare qualcosa su cui far leva per imbastire un'ipotesi di futuro. Di futuro insieme. «Lasciateci tranquilli. Vogliamo tornare a una vita normale», disse Stefano Lorenzi agli inviati delle tv che, qualche mese fa, lo avvicinarono al momento della concessione degli arresti domiciliari ad Annamaria.

Una vita normale.

Francesco De Nardo, padre di Erika, assassina di Gianluca, suo fratello, e di Susy Cassini, sua madre (Novi Ligure, 21 febbario 2001), sta provando a rifarsela. Si è rifiutato di considerare sua figlia un mostro. Voleva uccidere anche lui, Erika. Ma Omar, fidanzato e complice, si era tirato indietro: se vuoi, uccidilo tu. Francesco, ingegnere alla Novi, era insieme vittima e padre della carnefice. «L'uomo più solo e disperato del mondo», scrissero i giornali. Pochi giorni dopo, nel cortile del carcere di Torino dove sua figlia era rinchiusa, incontrò alcuni giornalisti e rigettò quella definizione: «Io ho Erika e devo continuare a vivere per lei», disse. Quando i magistrati tolsero i sigilli alla casa, riverniciò le pareti ancora imbrattate dal sangue della moglie e del figlio. Qualche tempo fa, dopo che Erika aveva scontato 11 anni di galera, il papà andò a trovarla nella casetta della comunità di don Mazzi, presentandole la sua nuova compagna. Lontano dai riflettori, nel silenzio, si riesce a rimarginare la ferita.

Non sappiamo se prima della tragedia, questi padri e mariti conducessero una vita normale. Non sappiamo come fossero. Autoritari, accentratori o compagni teneri. Li vediamo ora silenziosi, discreti, pietosi. Anche se sprofondati nell'abisso. Incarnano virtù che, sbagliando, un tempo si ritenevano esclusive femminili. Ma non abbandonarsi all'isteria, non cedere all'emotività, tenendosi tutto dentro, prescinde dal portare o meno i pantaloni. La vita mette alla prova uomini e donne.

Dopo la tragedia c'è da ricostruire. Nel silenzio, Davide Stival coltiva la speranza di trovare il colpevole. Che non sia «uno qualsiasi», ha chiesto. E che non sia la moglie. Insieme alla quale, a Loris, aveva dato la vita.

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