Radical chic

La disfida dei radical chic, padroni del Bene e del Male

De Gregorio contro Zingaretti, Michele Serra e Flavia Perina: esistono i radical chic? Ecco chi sono

La disfida dei radical chic, padroni del Bene e del Male

Non so se avesse ragione Concita De Gregorio o Nicola Zingaretti nella disfida dei radical chic andata in onda qualche giorno fa su giornali e social media. La prima che accusa il secondo di essere un sughero inconsistente, lui che sbertuccia lei sul “ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole sempre dare lezioni”. Probabilmente nessuno dei due aveva davvero torto. È tuttavia necessario, sarebbe sciocco non farlo, che questa rubrica si occupi del tema. Non solo perché è l’oggetto dei nostri ragionamenti, ma perché sentire il bue (Zinga) che dà del cornuto all’asino (Concita) richiede un approfondimento. Soprattutto se, come successo in questi giorni, sul tema decine di giornalisti e commentatori hanno sprecato fiumi e fiumi di inchiostro.

Parto da un principio. Radical chic oggi non c’entra un tubo con quanto inventato da Tom Wolfe per gli artisti che filtravano con le Pantere Nere. Perché i termini, soprattutto alcuni, cambiano significato nel tempo. Radical chic oggi rappresenta chi vanta di avere una superiorità morale e politica tale da dividere il mondo in buoni e cattivi, il tutto spesso condito con un nonnulla di “due pesi e due misure”. Rappresenta insomma chi elogia la battaglia ambientalista e poi va in giro col jet privato. Radical nei contenuti ma chic nelle movenze. Chi combatte l’inquinamento e smanetta sugli iPhone. Chi predica accoglienza ma non a Capalbio. Chi si indigna per le mascherine mancanti nella manifestazioni di destra e nulla dice per gli assembramenti dei Black Lives Matter o dei seguaci di Navalny. Chi insomma ritiene che si debba difendere la libertà di espressione, ma non se ad esprimerla sono gli anti-abortisti.

In sostanza è l’appellativo perfetto per chi bacchetta sempre a destra e sparge solo petali a sinistra. Sbaglia Flavia Perina a sostenere che in fondo siamo tutti radical chic, pure i cronisti di questo giornale. Non è così. Lo sono invece i tanti inviperiti per l’affondo rivolto da Zingaretti alla De Gregorio: possibile che un leader politico non possa criticare come gli pare un giornalista? Lei l’ha definito “sughero” e tanto altro, avrà pur diritto il povero Zinga a replicare piccato, no? Anche la categoria di cui non faccio ancora tecnicamente parte, infatti, sa dare esempio di altissimo schicchismo. Il più elitario. Ma sbaglia soprattutto Michele Serra a definirlo un termine “schiettamente di destra”: non è la parola ad essere di destra, è l’insieme di soggetti che essa rappresenta ad essere progressista. Non è vero neppure che l’establishment tout court sia considerato dalla “demagogia populista” come tale: Draghi, per esempio, nessuno si sognerebbe mai di definirlo tale. Radical chic non è una condizione sociale. È una forma mentis. Tipo quella di Serra, secondo cui i leghisti “adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre”.

Sul tema, comunque, il migliore dei commenti l’ha scritto Giampiero Mughini, al quale va dato atto di aver fornito - inconsapevole - un’ottima descrizione dei soggetti di questa rubrica. Radical chic sono quelli che si lasciano “andare alle tiritere su dove sta il Bene e dove sta il Male” per poi puntare il ditino contro chi ritengono indegno. “E questo perché in fatto di Bene e di Male” loro sono categorici: tutto quello che a loro non piace è “il Male” e allora ne dicono “peste e corna”.

Bettino Craxi era il male, Silvio Berlusconi era il male, oggi Matteo Salvini è il male.

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