Se Mark Twain fosse ancora in vita, forse cambierebbe il fulminante aforisma sui banchieri, quelli che «ti prestano l'ombrello quando c'è il sole, e lo rivogliono indietro quando inizia a piovere». Mario Draghi si è comportato infatti in modo opposto. Ha aperto il parapioggia quando diluviava, per offrire protezione a tutti. E non l'ha ancora richiuso, neppure adesso che si appresta a guidare per l'ultima volta da presidente la riunione di oggi della Bce.
Otto anni turbolenti sono passati dalla sua nomina, maturata nel giugno del 2011, con il governo Berlusconi. Otto anni contrappuntati da un doppio tsunami finanziario culminato con la crisi del debito sovrano, inveleniti nella parte terminale del suo mandato da polemiche arroventate sulla modalità di gestione dell'Eurotower. Per molti, decisamente meglio l'accondiscendenza spacciata per collegialità nelle decisioni di Wim Duisenberg e di Jean-Claude Trichet, i suoi predecessori, piuttosto che la tendenza accentratrice di Draghi, quell'applicare perfino all'interno del board una fra le frasi che più svelano il carattere dell'uomo: «Non annunciamo cosa potremmo o vorremmo fare, annunciamo quello che abbiamo fatto».
Ma se il paradosso del calabrone applicato all'euro è ancora valido, è proprio perché Super Mario ha fatto ciò che andava fatto, andando dritto al punto con un timing perfetto e lasciando da parte iperboli e retorica. Senza il «whatever it takes» del luglio 2012, una sorta di danza propiziatoria degli aiuti per complessivi 2.600 miliardi poi iniettati nel sistema, saremmo qui a parlare di un'altra storia. Christine Lagarde, che ne prende il posto dal primo novembre, ce ne racconterà probabilmente un'altra.
Che potrebbe anche non piacerci se l'asse della Bce dovesse pendere dalla parte della Germania e dei suoi alleati. Per quanto Draghi abbia sempre negato che l'Eurotower agisca come prestatore di ultima istanza, la banca è ora molto più vicina all'interventismo pro crescita della Federal Reserve che alla stretta osservanza dell'ortodossia monetaria della Bundesbank.
Altrimenti, il quantitative easing sarebbe rimasto nel cassetto. Chi l'ha scelto, doveva immaginare che Draghi non avrebbe mai avuto un'idea monoteistica della banca centrale.
Non poteva averla per formazione, lui che presa la laurea in economia alla Sapienza (nella tesi - Integrazione economica e variazioni dei tassi di interesse - già un destino) era volato al Mit di Boston sotto l'ala protettrice di Franco Modigliani, per poi salire i gradini di Goldman Sachs fino alla vicepresidenza. Non poteva averla perché Draghi conosce il senso della solidarietà e lo spirito di sacrificio: ancor prima dei 20 anni, ha perso padre e madre e ha così dovuto badare ai fratelli minori, Andreina e Marcello. Alla fine, uno così non si lascia intimorire. Neppure da un tipo tosto come il numero uno della Buba, Jens Weidmann, nemico giurato delle politiche di allentamento quantitativo e dei tassi a zero.
Guerra aperta con lui («L'idea che il Qe distorca i mercati finanziari si sente abbastanza spesso. Ma non è chiaro cosa significhi»), ma senza compromettere i rapporti buoni con Angela Merkel. D'altra parte, se Draghi sa navigare nelle tempeste finanziarie, come dimostrò già da direttore generale del Tesoro, messo lì dal ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi ai tempi dell'avvitamento valutario della lira (autunno '92), è anche capace di destreggiarsi nei mari agitati della politica. Il Draghi che sollecita senza sosta i governi a cambiare, riformare, ammodernare è lo stesso che nel '93, con i galloni da presidente del comitato Privatizzazioni, smonta il baraccone delle partecipazioni statali fra gli alti lai dei boiardi di Stato. Allora come ora, gli si rimproverava di essere troppo potente.
Ma nelle esangui casse pubbliche porta oltre 100 miliardi di vecchie lire. Sempre con la stessa aria impassibile, da uomo normale che si mette in fila per il passaporto (come ha fatto quando già governava la Bce), o che celebra in pizzeria la laurea del figlio Giacomo, Draghi è una sorta di Mr. Wolf, quello chiamato per aggiustare i problemi. Fu così anche quando arrivò nel 2006 al vertice di una Bankitalia scossa dalla gestione di Antonio Fazio. E' perciò difficile immaginarlo, una volta uscito dalla Bce, nel ruolo del conferenziere profumatamente pagato come i suoi ex colleghi della Fed, Alan Greenspan, Ben Bernanke e Janet Yellen.
L'Italia potrebbe aver bisogno di lui, in caso di implosione del governo giallo-rosso.
Ha autorevolezza, credibilità a livello planetario e competenze indiscusse per fare il premier. Doti che non guastano in un Paese in perenne deficit, e non solo sotto il profilo contabile. Poi, per fare il presidente della Repubblica, c'è sempre tempo.
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