Mercoledì il suo governo debutta nelle aule parlamentari, e Mario Draghi - il premier «tecnico» assai politico - prende molto sul serio l'appuntamento.
Esaurita sabato, con il giuramento al Quirinale, la pratica della squadra di ministri; ispezionata per la prima volta la sua nuova postazione di lavoro (lo studio d'angolo di Palazzo Chigi appena liberato da Conte); lasciato il suo primo Consiglio dei ministri con l'ammonimento di tenere a freno le vanità e le lingue, e di lasciar parlare i fatti, Draghi è tornato al suo buen retiro umbro, nel gelo improvviso che assedia il Centronord, per lavorare al suo intervento in aula. Una scadenza che, in nome del massimo rispetto per le istituzioni, vuole onorare con scrupolo, spiegando ai parlamentari, e per loro tramite agli italiani, il suo programma di lavoro alla guida del governo. «Di qui a mercoledì non farà altro», confida un suo collaboratore. Anche la lista dei vice-ministri e sottosegretari, ancora tutta da definire, passa in secondo piano.
Intorno a lui esplodono le crisi di nervi e le convulsioni dei partiti: i Cinque stelle senza bussola che vanno in mille pezzi; il Pd ancora scosso dalla convivenza obbligata con la Lega e dilaniato dalla questione femminile; il Carroccio dove Salvini cerca di recuperare ruolo dopo esser stato costretto dai suoi a dire sì al nuovo governo. Financo il mini-partito di Leu si scinde tra supporter di Draghi (quelli contenti di aver incassato la permanenza di Speranza alla Salute e che sperano in qualche sottosegretariato, quindi la maggior parte) e contrari, in nome della sinistra dura e pura che i banchieri li immagina ancora come crudeli affamatori di proletari.
Il neo-premier, però, non pare preoccuparsi più di tanto, per il momento, dei problemi psicologici della sua maggioranza. Comunque vada, tra mercoledì e giovedì incasserà prima in Senato e poi alla Camera una maggioranza con numeri mai visti prima: la base di partenza è di 291 sì su 315 a Palazzo Madama, e di 591 sì su 630 a Montecitorio. Certo ci sarà da fare la tara dei dissidenti 5s che minacciano ribellioni, scissioni, abbracci con Fratelli d'Italia lamentando che il partito sia rimasto a bocca asciutta di poltrone significative. Denuncia il parlamentare Iovino: «Ci hanno trattati come deficienti». Chissà come mai. «Ci siamo venduti per un piatto di lenticchie», geme tal Pino Cabras, che di piatti ne avrebbe preferiti almeno due. Ma per quanti siano i no da quelle parti (c'è chi dice 20 e chi azzarda 40, ma con i posti da sottosegretario ancora in palio il numero potrebbe ridursi), il margine di sicurezza del governo resterà più che confortevole: persino se tutti i grillini votassero no (cosa che, ovviamente, non succederà mai) Draghi continuerebbe ad avere 199 voti al Senato e 400 alla Camera.
Questo non vuol certo dire che la navigazione sarà tranquilla: già subito dopo il voto di fiducia inizieranno a venire al pettine i disastri e i problemi irrisolti eredità dello scorso governo: la questione prescrizione rischia di spaccare immediatamente la maggioranza, quando in Commissione si voteranno gli emendamenti sulla giustizia infilati nel Milleproroghe.
I dossier Ilva e Autostrade sono due buchi neri alimentati dal dilettantismo statalista del Conte Uno e Due, e il neo ministro dell'Economia Franco se li ritroverà immediatamente tra le mani. E poi la questione ristori, la campagna di vaccinazione da rilanciare, e il decreto sul nuovo ministero del «governo ambientalista» da scrivere.
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