E ora nessuno vuole più adottare l'euro

di «Ci mancava anche questa! Se fossimo stati membri dell'Eurozona, noi che siamo i più poveri di tutti saremmo anche stati costretti a contribuire a pagare per le malefatte dei Greci!». L'uscita di Boiko Borisov, primo ministro di una Bulgaria che, stando agli impegni presi al momento dell'adesione alla Ue, dovrebbe anche adottare l'Euro non appena ce ne siano le condizioni, la dice lunga sulle ripercussioni che la crisi ellenica sta avendo nei Paesi «candidati» dell'Europa centrorientale: quello che finora sembrava, ai più, un traguardo ambito, una specie di ulteriore legittimazione e uno strumento per ridurre la differenza di reddito pro capite con le nazioni più ricche, è diventato quasi uno spauracchio: nessuno vuole correre, nel caso molto probabile di difficoltà interne, il rischio di un bis della Grecia - perdita di sovranità, imposizione di misure draconiane, umiliazione di dovere dare in pegno i beni dello Stato per ottenere nuovi crediti.

La precipitosa marcia indietro degli aspiranti all'Eurozona è generale ed è guidata proprio da quella Polonia il cui ex primo ministro Tusk, oggi presidente del Consiglio europeo, avrebbe avuto un ruolo decisivo nell'impedire, nella notte tra domenica e lunedì, una rottura definitiva tra Germania e Grecia. Nelle elezioni in programma in autunno, Piattaforma civica, il partito di Tusk, avrebbe infatti dovuto guidare il partito del sì, ma il nuovo primo ministro Eva Kopasz ha già cambiato idea: «Non oggi, non domani, non in cinque anni, ma solo quando saremo sicuri che l'Euro rappresenterà un beneficio per la Polonia e i polacchi» ha dichiarato alla Tv; e la sua potenziale avversaria, Beata Szydlo, è stata ancora più categorica: «Non vogliamo fare la fine della Grecia: fino a quando l'Eurozona non risolve i suoi problemi di governance, non se ne parla neanche». Il problema è che, per risolvere questi problemi, ci vorrebbe una unione politica più stretta e un sistema finanziario integrato, cioè proprio le cose che la maggioranza dei polacchi, cui spesso le imposizioni di Bruxelles ricordano quelle di Mosca ai tempi del patto di Varsavia, non vuole.

Abbastanza simile è l'atteggiamento della Repubblica ceca, che pure è economicamente la più avanzata e solida del gruppo. A Praga si teme di essere coinvolti in una crisi generale della moneta unica, provocata da un improvviso Grexit o da altro imprevedibili incidenti di percorso. L'idea prevalente è di copiare Danimarca e Svezia che hanno un cambio fisso con l'Euro ma mantengono la sovranità monetaria, cioè la possibilità di svalutare (o rivalutare) secondo necessità.

Per gli ultimi arrivati nella Ue, Romania, Bulgaria e Croazia, la prospettiva di un'adesione alla moneta unica è lontana, ma anche nel loro caso gli entusiasmi iniziali stanno svanendo, alla luce delle riforme che dovrebbero adottare per rientrare nei parametri di Maastricht e della paura di un crollo «pilotato» da Bruxelles sull'esempio greco. Qui si parla di dieci, anche quindici anni di anticamera.

Infine c'è l'altra faccia della medaglia, cioè la volontà degli attuali membri di accogliere nel club nuovi membri non preparati, che potrebbero incorrere rapidamente in difficoltà non inferiori a quelle della Grecia.

L'atteggiamento può essere riassunto nella frase: «Non andiamo a cercarci altre rogne», soprattutto se non si mette prima ordine in casa: impresa, come tutti sappiamo, tutt'altro che facile. Una cosa, perciò, appare certa: indipendentemente da come finirà ad Atene, almeno per il momento il sogno di fare dell'Euro un elemento unificante della nuova Europa allargata deve essere riposto nel cassetto.

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