Alla vigilia del suo incontro a Hanoi con Kim Jong-un, Donald Trump ostenta nei confronti dei suoi critici americani il disprezzo che gli è congeniale. Con che coraggio, argomenta il presidente degli Stati Uniti, gente che dalla Corea del Nord non è mai stata in grado di ottenere alcunchè si permette di darmi consigli su come gestire il negoziato. Trump è solleticato in questi giorni dalle voci di un possibile Nobel per la Pace che potrebbe venirgli attribuito se l'intesa tra le due Coree diventasse, grazie ai suoi buoni uffici, cosa concreta. Sembra però dimenticare o sottovalutare l'attuale dato di realtà: al di là del teatro dei vertici con il furbo leader di Pyongyang e di uno stop ai test su nuove armi atomiche, la Casa Bianca non ha finora ottenuto granchè. Vediamo allora in sintesi quale è realmente la situazione e cosa potrebbe davvero sortire dal vertice in Vietnam.
IL FRONTE INTERNO USA
Trump ha già orientato la sua azione politica sull'orizzonte delle presidenziali del novembre 2020. Per far dimenticare i suoi problemi interni, primo fra tutti il continuo assedio alla sua persona rappresentato dall'inchiesta Russiagate, ha bisogno di tornare da Hanoi con qualcosa di concreto in mano. Nel suo ultimo tweet prima di salire sull'Air Force One, il presidente ha alluso alla prospettiva della denuclearizzazione in Corea, un obiettivo molto ambizioso ma improbabile: non si deve dimenticare che Kim si è procurato un arsenale atomico per disporre di una sorta di polizza vita per sé e per il suo regime, e pare difficile che sia disposto a privarsene. Mike Pompeo, che è molto più addentro del suo presidente agli aspetti di sostanza del negoziato, ha subito chiarito che «ci vorrà tempo» e «magari un altro summit» per arrivarci. Campa cavallo. Trump ostenta di non avere fretta con Kim, ma rimane il fatto che gli è necessario continuare ad alimentare la narrativa di un percorso vincente per l'America in Corea. È quindi logico attendersi da parte sua a Hanoi qualche colpo di teatro, e poco importa se in futuro questo dovesse rivelarsi poco più di un involucro vuoto. Un esempio perfetto potrebbe essere rappresentato da un passo avanti ufficiale rispetto all'attuale stato di armistizio tra Seul e Pyongyang: se si superasse la «guerra congelata» in vigore dal remoto 1953 con un qualche tipo di dichiarazione di pace che magari aprisse la strada alla collaborazione economica del ricco Sud con l'impoverito Nord, alla Casa Bianca si canterebbe vittoria.
IL FATTORE CINA
A Pechino sono ben consapevoli delle necessità politiche di Donald Trump e delle aspettative che egli ripone nel vertice vietnamita. Impegnati come sono in un braccio di ferro anche più duro con il presidente degli Stati Uniti, i cinesi devono a loro volta trarre vantaggio per sé da quanto accade a Hanoi. A Xi Jinping conviene che Trump torni soddisfatto dal Vietnam, perché se così non fosse l'uomo della Casa Bianca troverebbe necessario ottenere da lui in un prossimo vertice sino-americano, sempre nell'ottica di spendibilità politica in vista di Usa 2020, ciò che sperava di ottenere da Kim. Xi, dunque, forte della sua posizione di unico alleato della Corea del Nord, ha certamente esercitato sul leader di Pyongyang adeguate pressioni affinché conceda a Trump un po' della soddisfazione che cerca.
IL MODELLO VIETNAM
Diventare amici dell'ex arcinemico per ottenere la sopravvivenza e la stabilità del regime. È questo l'esempio che il regime comunista di Hanoi fornisce alla Corea del Nord. Il Vietnam rosso, uscito inopinato vincitore dalla guerra con il colosso americano negli anni Settanta, ha compiuto un capolavoro di Realpolitik avviando un programma di riforme economiche e stringendo accordi anche strategici con gli stessi Stati Uniti.
Si è così garantito l'ingresso nel Wto e una crescita economica invidiabile, oltre a un'alleanza di fatto con gli americani che protegge Hanoi dall'aggressivo espansionismo cinese nella regione. Il contesto coreano è diverso, ma Kim ha un modello cui ispirarsi per far sopravvivere il suo regime da Jurassic Park nel XXI secolo.
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