La tragedia del Mottarone

Eitan, famiglie in guerra. "Rapito". "No, salvato"

Scontro tra parenti. La zia italiana: "Il nonno lo ha portato via, ha precedenti per violenze"

Eitan, famiglie in guerra. "Rapito". "No, salvato"

Siamo stati facili profeti. Lo scorso 21 agosto, alle prime avvisaglie della «battaglia tra i parenti di Eitan Biran», Il Giornale iniziava il suo resoconto con queste parole: «Ci mancava solo che i familiari del povero Eitan iniziassero a litigare su chi fra i due rami (quello materno, ebraico; e quello paterno, cristiano) sia il più idoneo per gestire il futuro del bimbo rimasto orfano nella tragedia del Mottarone. Si profila all'orizzonte una guerra di religione? Speriamo di no. Ma temiamo di sì».

Le cose, dopo poco meno di un mese, sono degenerate oltre ogni peggiore previsione. Il nonno materno di Eitan - il bimbo di 6 anni che lo scorso 23 maggio perse in un istante mamma, papà, fratellino e bisnonni - è arrivato l'altroieri da Tel Aviv a Pavia; ha prelevato il nipotino dalla zia paterna, Aya Biran (alla quale, dopo il crollo della funivia in cui morirono 14 persone, i giudici affidarono il piccolo); lo ha fatto salire sul jet privato con cui poche ore prima era atterrato in Italia ed è volato via: insomma, quasi un rapimento (tanto che la Procura di Pavia ha aperto un'inchiesta per sequestro di persona), in spregio a ogni legge dell'ordinamento giuridico del nostro Paese, ma anche calpestando la buona fede della zia italiana che aveva rispettato i termini dell'«incontro programmato» tra Eitan e il nonno, Shmuel Peleg. Quest'ultimo aveva assicurato alle 11 di sabato mattina: «Lo porto a comprare dei giocattoli. Come d'accordo torneremo alle 18.30». Alle 6 e mezza del pomeriggio Eitan si trovava invece già a Tel Aviv: «La sua vera casa è qui, abbiamo operato solo per il suo bene. La mamma desiderava che il figlio vivesse in Israele, crescendo con la nostra cultura e il nostro credo religioso». Abbiamo presentato istanza di affidamento e siamo certi che sarà accolta». Come possa essere accolta una istanza di affidamento avanzata da chi ha appena sequestrato un bambino, resta un mistero. Ma in questa brutta storia, i misteri abbondano. Ieri Aya Biran si è posta una serie di domande: «Perché il passaporto israeliano di Eitan era ancora nelle mani del nonno? Come mai nessuno ha controllato nonostante i nostri ripetuti allarmi? Shmuel Peleg ha potuto godere di complicità esterne?». Voci non confermate descrivono il nonno israeliano addirittura come un «ex agente segreto del Mossad», nonché «condannato per maltrattamenti alla moglie».

Condivisibile lo sdegno di zia Aya: «Quanto accaduto è gravissimo. Confidiamo nella collaborazione tra le autorità italiane e israeliane per riportare Eitan in Italia. Il bambino oggi sarebbe dovuto tornare a scuola, qui ha gli affetti più cari, i cuginetti, gli amici. Io non sono la mamma ma lo amo come fosse mio figlio. Sono stata accanto a lui quando aveva gli incubi notturni. Questo ulteriore choc del rapimento rischia di vanificare l'importante percorso psicologico che stava facendo per dimenticare il trauma dell'incidente. Ora un'altra tragedia si aggiunge al precedente dramma». Con la differenza però che, in questa «tragedia», i responsabili sono proprio le persone che dovrebbero tenere più a cuore le sorti di Eitan. Ma che invece si sono comportati in maniera assurda.

Da parte loro nessun pentimento: «Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto finalmente sono in Israele», ha raccontato la zia israeliana, Gali Peleg.

Difficile crederle.

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