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Emirati Arabi infuriati. A rischio base italiana e ritiro dall'Afghanistan

Minacciano di cacciarci dal presidio di Al Minhad dopo lo stop all'esportazione di armi

Emirati Arabi infuriati. A rischio base italiana e ritiro dall'Afghanistan

Il ritiro dall'Afghanistan è a rischio. Gli Emirati arabi minacciano di sloggiare l'Italia dalla base di Al Minhad, snodo strategico per riportare a casa tutto il materiale non solo bellico da Herat. Ieri l'agenzia LaPresse, citando fonti anonime della Farnesina, aveva dato per certa l'intimazione dello sfratto. Il ministero degli Esteri smentisce e la Difesa conferma «che il rischio esiste, ma si sta lavorando per evitarlo». Giovedì il responsabile del dicastero, Lorenzo Guerini, ha parlato al telefono con l'omologo emiratino, Mohammed bin Ahmed al Bowardi. Secondo l'agenzia stampa degli Emirati è stato discusso «il rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi in campo militare e nel settore della difesa».

L'8 giugno all'aereo con i giornalisti che volava verso Herat per l'ammaina bandiera è stato proibito lo spazio aereo degli Emirati. E la Farnesina aveva convocato l'ambasciatore per spiegazioni. Gli emiratini sono inferociti per lo stop di gennaio voluto dai grillini e dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, alle esportazioni di armi per il coinvolgimento del paese nella guerra nello Yemen, in realtà in parte superato dagli eventi. E anche il nostro avvicinamento al Qatar, rivale giurato, compresa la recente vendita di navi da guerra, è una spina nel fianco dei rapporti con Abu Dhabi.

La crisi è tale, che la Difesa sta predisponendo piani alternativi, più costosi, che allungherebbero i tempi del ritiro con relativo pericolo per le nostre truppe se ce ne andassimo dopo gli americani.

Una ventina di giorni fa dovevamo ancora fare tornare in Italia 2 chilometri di materiale, soprattutto shelter e container, comprese le armerie, ma ci sono anche elicotteri, blindati e altri velivoli. I piani del Coi, Comando Operativo di vertice Interforze, prevedono di chiudere tutto a fine giugno o in luglio. Dalla base di camp Arena a Herat è stato pianificato un ponte areo con una trentina di voli grazie al noleggio di Antonov e Ilyushin IL-76. Da Herat atterrano ad Al Minhad a Dubai e poi il materiale viene imbarcato nel porto di Jebel Alì per raggiungere l'Italia. Ogni volo costa circa 300mila euro e la nave verrà pagata 700mila euro. L'ultima fase del ritiro costerà almeno 10 milioni. «Se non possiamo passare per gli Emirati è un grosso problema» spiega lo spedizioniere Valter Amatobene, specializzato in aree di crisi. «Come alternativa immaginerei il Kuwait, dove siamo già presenti in una base, o Gedda in Arabia Saudita. Ogni volo costerà circa 50mila euro in più oltre alla differenza dei giorni di navigazione» calcola Amatobene, che opera in Afghanistan.

In realtà, la Difesa sta studiando altre opzioni, sempre nella penisola arabica, a cominciare dall'Oman attraverso le basi dei nostri alleati occidentali. Se perdessimo la base di Dubai sarebbe un disastro strategico e logistico anche per altre missioni. Negli Emirati sono impiegati 106 militari e Al Minhad è uno snodo cruciale non solo per il ritiro dall'Afghanistan, ma pure per le operazioni nel Corno d'Africa e Prima Parthica in Irak.

Il governo Conte, che ha provocato la frittata, non ha tenuto conto dei rancori pregressi come il caso Alitalia-Etihad, che ha provocato un'indagine della procura di Civitavecchia sul ruolo degli emiratini. Per non parlare della Piaggio aviazione comprata dagli arabi, che poi non ha mai prodotto un previsto drone militare.

Ci ha pensato la Casa Bianca, mentre i grillini sventolavano lo stop alle armi agli Emirati, a vendere caccia F-35 e droni per 23 miliardi di dollari ad Abu Dhabi.

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