
"Hanno deliberatamente taciuto l'esistenza di risultanze investigative in palese ed oggettivo conflitto" con le tesi della Procura, hanno selezionato "chirurgicamente" le prove emerse durante le indagini: portando in aula quelle che servivano a sostenere l'accusa, e tenendo nei cassetti gli elementi che scagionavano gli imputati. Con queste motivazioni un anno fa il pm milanese Fabio De Pasquale e il suo collega Sergio Spadaro erano stati condannati a otto mesi di carcere, e ieri la sentenza viene confermata anche dalla Corte d'appello di Brescia. Solo il ricorso in Cassazione separa ormai De Pasquale da una condanna definitiva che chiuderebbe nel modo peggiore la sua lunga e combattiva carriera di pubblico ministero. "Rifiuto di atti d'ufficio", questa era l'accusa che la Procura di Brescia muoveva ai suoi colleghi milanesi per la loro gestione del processo cui De Pasquale aveva dedicato anni di sforzi: l'accusa di corruzione internazionale mossa ai vertici dell'Eni, compreso l'attuale amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, assolti con formula piena dopo un processo ricco di colpi di scena. Compreso quello decisivo: che arriva quando un altro pm milanese, Paolo Storari, rivela che De Pasquale gli impedì di rendere note le prove che Pietro Armanna, il principale teste d'accusa del processo Eni, era un calunniatore di professione. "Erano carte irrilevanti", hanno sempre detto De Pasquale e Spadaro. Ma il tribunale che assolse i vertici Eni scrisse che se avesse conosciuto quelle carte l'assoluzione sarebbe stata ancora più ovvia. E la sentenza che un anno fa condannò in primo grado De Pasquale fu ancora più pesante: se i due pm, come imponeva loro la legge, avessero depositato tutto, allora "il processo Scaroni Paolo + 14" avrebbe potuto concludersi positivamente per gli imputati già all'udienza preliminare". De Pasquale, che ieri non era presente in aula alla lettura della sentenza (alla condanna reagisce per lui il suo avvocato Massimo Dinoia: "Non ci credo"), ha già pagato la sua battaglia contro l'Eni con la retrocessione: il Consiglio superiore della magistratura gli ha tolto i galloni di procuratore aggiunto che si era conquistato sul campo, primo pm in Italia a far condannare Bettino Craxi, unico a far condannare Silvio Berlusconi. Ora paga iI furore agonistico, sorretto da una certezza assoluta delle proprie ragioni, con cui ha condotto i processi all'Eni: tutti conclusi con assoluzioni. Non demorde, dice che le carte che avrebbe nascosto erano solo "un polverone", "un'accozzaglia di congetture per distruggere la credibilità di Armanna a poche udienze alla fine del processo".
Ma ora deve rassegnarsi a trascorrere da semplice sostituto procuratore i due anni che gli mancano alla pensione. E a incarnare la dimostrazione vivente che tenere unite le carriere di giudici e pubblici ministeri non garantisce che i pm abbiano a cuore anche le ragioni della difesa.