Era un gaudente ma lontano dalla «Milano da bere»

I fedelissimi craxiani non lo amavano. E per questo gli dispiacque finire nel tritacarne con loro

Luca Fazzo

Milano Lui c'era arrivato prima. Quando i giovani leoni socialisti, sbarcati nel mondo del potere all'inizio degli anni Ottanta, capirono che la politica non era solo sangue e merda - come predicava Rino Formica - ma anche un sacco di cose più piacevoli, Gianni De Michelis lo aveva scoperto da un pezzo. Perché per una serie di motivi - culturali, etnici, di censo - la visione della conquista del potere come una scalata oscura e faticosa non gli era mai appartenuta; negli anni in cui i futuri signori del Garofano - i Craxi, i Tognoli, i Pillitteri - consumavano la loro giovinezza in assessorati di periferia e in riunioni fumose ed interminabili, De Michelis era già una star di prima grandezza di Ca' Foscari, baciato dalle origini altoborghesi ma anche da una intelligenza viva, irrequieta, a venticinque anni professore universitario di Chimica.

Quando capì che il potere era il mezzo per dare forma alle proprie idee, De Michelis capì anche che non serviva scimmiottare i riti della generazione precedente, il rigore da sagrestia dei Fanfani, il grigiore dei Forlani e dei La Malfa, la riservatezza da catacomba degli Andreotti. Il mondo stava cambiando, e il potere poteva essere incarnato da un figaccione veneziano che si scatenava in discoteca.

Della Milano da bere, che dell'edonismo craxiano fu capitale e simbolo, De Michelis fu ospite sporadico e non del tutto gradito. Non gradita, d'altronde, era la sua stessa presenza nel correntone di Craxi, dove era approdato alla fine dei '70 abbandonando la sinistra lombardiana al suo destino triste e minoritario. E il primo a non fidarsi fino in fondo di lui era «re Bettino». Non a caso nel capoluogo del craxismo una corrente demichelisiana non esistette mai, per il semplice motivo che se qualcuno avesse provato a impiantarla sarebbe stato messo al muro il giorno stesso.

Così anche i riti allegri e un po' cafoni di quella che Pillitteri, il sindaco-cognato, definì «la città più libera del mondo», tenevano De Michelis alla larga. Lui non se ne faceva un cruccio, e anzi teneva a sottolineare che mentre i rampanti del craxismo affollavano i night sotto la Madonnina lui sudava sulle piste delle balere popolari, con lo stesso spirito tra l'intellettuale e il turistico con cui aveva studiato chimica per capire la vita degli operai di Porto Marghera. E ancora meno si doleva di essere estraneo al cerchio magico, il gruppetto dei pretoriani che nella cripta del Matarel di corso Garibaldi, fornivano al Capo informazioni, consigli, rassicurazione.

Certo, si rendeva conto che all'esterno la sua immagine finiva confusa e sovrapposta al circo dei nani e delle ballerine che nei congressi incoronava Craxi per acclamazione tra tempietti greci e bonazze adoranti. Ma se ne infischiava allegramente, tanto era convinto che una visione quaresimale della vita politica appartenesse ormai al passato remoto. Quando passava per Milano sapeva che alle sue spalle i pasdaran di Bettino ne dicevano di tutti i colori, snocciolando gli elenchi delle conquiste femminili che il pettegolezzo romano gli attribuiva, specie quando dal ministero delle Partecipazioni Statali poteva regnare sulla Rai: ma lui più che benefit del potere le considerava conseguenza inevitabile del fascino di cui era fin troppo consapevole.

Veniva da una Repubblica le cui vele solcavano i mari quando a Milano c'era la malaria, non aveva un passato da riscattare. Per questo, quando tutto crollò, gli dispiacque finire nel tritacarne insieme a quei parvenu del potere e del piacere.

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