La fabbrica degli allarmi ci è già costata 12 miliardi

Mucca pazza, aviaria, mozzarelle blu: un prezzo alto pagato da una filiera di eccellenza del made in Italy

La fabbrica degli allarmi alimentari lavora a pieno regime, E sviluppa un fatturato importante. Purtroppo negativo: negli ultimi quindici anni il made in Italy ha pagato un prezzo di 12 miliardi a causa dei battage propagandistici dei complottisti di turno che hanno condizionato i consumi. Attentando sempre agli stessi scaffali.

I calcoli li ha fatti Coldiretti. Che ha ricostruito la cronologia del terrore a tavola. Tutto è incominciato nel 2001, quando si diffuse la psicosi della «mucca pazza». Solo in quell'occasione il sistema della produzione, trasformazione e commercio della carne bovina subì un danno di due miliardi, ma almeno venne introdotto l'obbligo di indicare in etichetta la provenienza della carne bovina in vendita. Poi nel 2005 toccò alla carne di pollo (e anche qui scattò l'obbligo di tracciare la provenienza della carne avicola). Nel 2008 è stata la volta della carne alla diossina, a seguito della contaminazione nei mangimi, e del latte alla melamina in Cina. Un paio di anni ancora e nel 2010 ecco la mozzarella blu a inquietare i consumatori mentre nell'estate del 2011 fa la sua comparsa sulla scena il batterio killer, che fa salire ingiustamente i cetrioli sul banco degli imputati, e poi nel 2013 è la volta delle polpette fatte con carne di cavallo spacciata per manzo. Allarmi che hanno hatto salire il contatore dei danni economici per il made in Italy alimentari, ma che per fortuna hanno anche sviluppato gli anticorpi dei consumatori italiani nei confronto degli «al lupo! Al lupo!» dei presunti esperti. Infatti stavolta l'allarme dell'Oms sulla cancerogenità della carne non sembra aver svuotato più di tanto il carrello degli italiani. Solo l'11 per cento di loro assicura di aver ridotto il consumo di carne e insaccati negli ultimi giorni, dopo la sparata dell'organismo internazionale.

Eppure basterebbe poco. Informazione contro isteria, ragione contro sentimento. Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti, è convitno che molto aiuterebbe intervenire con misure strutturali, ad esempio istituendo l'obbligo di indicare in etichetta la provenienza della carne anche nei trasformati come i salumi. Eppure l'Unione europea, tanto alacre nell'inserire alghe e coleotteri nella «white list» dei cibi possibili, fatica ad adottare semplici misure di trasparenza dell'informazione al consumatore.

Ieri Coldiretti ha celebrato proprio la giornata della carne, con un tempismo forse discutibile ma alla fine coraggioso. Coccole sono state riservate ai salumi, particolarmente sotto accusa in questi giorni. L'Italia vanta la leadership europea nella produzione di salumi di qualità con 40 prodotti a denominazione di origine realizzati secondo precisi disciplinari di produzione dall'allevamento, all'alimentazione degli animali fino alla trasformazione. Culatello di Zibello, prosciutto di San Daniele e di Parma, Coppa piacentina. Chi può avere paura di simili delizie? Il fatturato nella filiera delle carni suine tocca i 20 miliardi, con 105mila persone occupate. Cifre mette ora a rischio malgrado le carni made in Italy siano più sane, perché magre, non trattate con ormoni, conservate generalmente solo con il sale, prodotte nel rispetto di rigidi disciplinari mentre, per dire, negli Usa l'utilizzo di ormoni e di altre sostanze atte a favorire la crescita degli animali è considerato del tutto lecito.

Senza contare che ogni italiano consuma 78 kg di carne all'anno, contro gli 87 dei Francesi e i 125 degli Americani. E che nella nostra tradizione trovano poco spazio preparazioni di dubbia salubrità come hot dog, würstel e bacon. Insomma, a ciascuno la sua ciccia. E guai a chi ce la tocca.

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