Le falle nella sicurezza e il mistero dei Cie

La crepa nei controlli è segnalata da mesi dalle forze di polizia, è testimoniata da qualsiasi cittadino che si metta in viaggio sui pullman che dal sud Italia raggiungono Roma e le città del nord: decine, migliaia di migranti arrivati dal mare si allontanano dai centri di accoglienza. Ma ora sono i servizi a lanciare l'allarme: «Il frequente rifiuto dei profughi di sottoporsi alle procedure di identificazione - scrivono i nostri 007 - incide significativamente sull'efficacia delle attività di controllo e riconoscimento». Non capita qualche volta, ma migliaia di volte: di 170mila migranti arrivati sulle coste italiane nel 2014, solo 115mila sono stati fotosegnalati, hanno confermato fonti di polizia, senza smentite, alla trasmissione Report . Nell'ultima relazione al parlamento del 2015 sulla politica della sicurezza i servizi non danno numeri, ma calcano la mano su questa falla della sicurezza. Al di là del fatto che il marocchino Touil Abdelmajid abbia avuto un ruolo nell'attentato al museo del Bardo a Tunisi o sia innocente, la sua storia accende i riflettori su procedure di identificazione fragilissime. Touil era stato registrato, sì, a Porto Empedocle, quando era sbarcato il 17 febbraio dalla Libia, ma con un nome falso. Alla sua identità si è risaliti solo grazie alla denuncia di perdita del passaporto sporta dalla madre. Ad Agrigento gli era stato consegnato il foglio di intimazione a lasciare l'Italia. Ma perché non è stato condotto al Cie, il centro di identificazione per quegli immigrati che non appartengono a Nazioni di guerra, e non sono quindi profughi? I Cie in Italia ora sono soltanto cinque, e ospitano in massima parte ex detenuti. Dovrebbero invece servire a identificare ed espellere i non regolari senza diritto di asilo.

I servizi lo scrivono chiaro nella loro ultima relazione: segnalano la «dispersione dei migranti sul territorio», con un «passaggio alla condizione di clandestinità» che ha accentuato «il rischio di una loro cooptazione nei circuiti delinquenziali», oltre che al rischio, soprattutto per i minori, di finire in canali «di sfruttamento». Il dossier segnala poi una intensa «specializzazione» nella falsificazione di documenti da parte di «strutturati network pakistani». E c'è un pericolo più preoccupante: starebbe nascendo un legame in Libia tra miliziani islamici e trafficanti di uomini verso l'Italia: sono un «potenziale vettore di minaccia» le «rilevate collaborazioni in estese zone del nord Africa e della regione sahelo-sahariana tra organizzazioni di trafficanti e gruppi armati di matrice islamista, favorite talora dai legami familiari o tribali». Rimane quindi «all'attenzione dell'intelligence il rischio di infiltrazioni terroristiche via mare, ipotesi plausibile in punto di analisi», sebbene finora senza «riscontro».

Ma migliaia di immigrati dopo lo sbarco si rifiutano di entrare nella banca dati europea. I regolamenti non consentono alla polizia di obbligarli: la maggior parte di chi si oppone all'identificazione, lo fa «nel timore che, una volta raggiunte le ambite mete nordeuropee, possano essere riassegnati al primo Paese di ingresso nella Ue (e quindi l'Italia ndr ) in applicazione del regolamento di Dublino».

È proprio questo il regolamento europeo che ha creato la crepa della sicurezza: consente a chi vuole di non essere identificato, finché non raggiunge lo Stato desiderato per la richiesta di asilo.

Molti, in effetti, puntano verso Germania e Francia. Ma è impossibile avere la certezza sugli spostamenti di oltre cinquantamila non identificati. Lo scorso anno al Cara di Bari sono passati 250 siriani e soltanto uno si è fermato. Dove si trovano gli altri? E chi sono?

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