Roma - Ricco? «No, sono pagato adeguatamente». E cioè, nel 2014, tra stipendio, stock options e altre voci variabili della retribuzione, ventisette milioni di dollari. Al cambio fanno ventidue milioni di euro, che sarà mai. «É quanto merita uno che ogni giorno mette a rischio la propria carriera». É il mercato bellezza, e tu non ci puoi fare niente.
Forse non sarà ricco, ma di certo Lamberto Andreotti, 63 anni, presidente esecutivo della Bristol-Meyer Squibb, secondo i dati della S&P Capital pubblicati dal Sole 24ore è il manager italiano più pagato all'estero. Un momento: Andreotti, questo cognome ci dice qualcosa. «Credo che mio padre non sapesse nemmeno se io guadagnavo mille, un milione o dieci milioni di dollari. Era un uomo talmente avulso dal denaro che credo non abbia avuto alcuna idea al riguardo».
Il Divo Giulio, formatosi al Visconti e alla scuola di De Gasperi, è stato sei volte presidente del Consiglio e ha dominato per sessant'anni la scena politica italiana. Suo figlio Lamberto ha studiato alla Sapienza e al Mit di Boston e ora domina la scena dell'industria farmaceutica internazionale. Due uomini di potere: «Sì, lo sono anch'io, però in modo diverso perchè il mondo dell'industria non è paragonabile a quello della politica».
Ma il sangue è lo stesso, come pure l'ironia fredda e la battuta pronta. Forse è scritto da qualche parte che nel destino dell'Italia c'è sempre qualche Andreotti, anche se Lamberto, in America da una vita, guarda quasi con distacco le vicende del Belpaese. «Non è vero che ho lavorato molto all'estero per sfuggire il peso di un cognome importante - ha detto in un'intervista al Sole 24 Ore - . Ho abbastanza anni per aver razionalizzato il problema. In famiglia non abbiamo mai dato peso al fatto che mio padre fosse una figura pubblica. Ciò è servito anche negli anni delle avversità, quando sono successe quelle che io ho definito mascalzonate politico-giudiziarie che hanno colpito mio padre. E come non ci avevano fatto effetto le sviolinate di prima, altrettanto è successo quando gli sviolinatori sono scomparsi. É la legge universale del comportamento umano».
Quella di trasferirsi negli Usa però non fu una scelta. Dopo aver studiato ingegneria e aver fatto un master in management, Lamberto Andreotti entrò in Finmeccanica. E mentre lavorava nella sede di New York, fu raggiunto da una telefonata di Arrigo Recordati che gli propose di occuparsi della sua azienda. «E la Recordati era italiana, come italiana era pure la Farmitalia-Carlo Erba, di cui sono stato amministratore delegato fino al 1992, quando non mi hanno venduto. Anzi, svenduto».
All'inizio l'ingegner Andreotti, esperto di cantieri e costruzioni, di farmaceutica non ne sapeva proprio un bel nulla. «Leggevo leggevo i manuali di farmacologia per infermieri perché quelli per i medici erano troppo difficili. Ma in seguito sono sempre stato a contatto con gente che si occupa di ricerca avanzata». Poi qualcosa l'avrà pure imparata, visto che da una decina d'anni è arrivato ai vertici di on colosso planetario come la Bristol-Meyer Squibb.
La politica italina, sostiene, non gli interessa. E quando sente parlare di andreottismo, dice, non pensa alla sottile arte del potere. «Alla parola Andreotti e suoi derivati penso solo a mio padre». Chissà, magari la politica americana lo coinvolge di più. Come non accostare infatti lo slogan vincente della sua azienda, «Togheter we can prevail», con il marchio di fabbrica della prima campagna elettorale di Obama, «Yes we can»? Sulla scia di Barak? «Semmai è vero il contrario - ha speigato recentemente - visto che lo slogan esiste da prima di Obama. Dovrebbe essere lui a pagarci i diritti. Ma c'è di più.
Nella pubblicità di Orencia, il nostro farmaco per l'artrite reumatoide, da anni il motto è proprio «Yes, I can». Dunque, chi ha copiato chi?E, sempre a proposito di slogan, ce n'è uno che Lamberto Andreotti prenderebbe in prestito da suo padre, quello più il famoso. «L'innovazione logora chi non ce l'ha»
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