La scommessa di Donald Trump trasformare la Corea del Nord in un altro Vietnam offrendo a Kim Jong-un investimenti e garanzie per la sopravvivenza del regime in cambio dello stop al nucleare è andata male. Peggio del previsto. Il presidente americano contava di rientrare con almeno un mezzo successo in tasca, ma torna a Washington a mani vuote: il giovane Kim, che lui sperava di attirare in una relazione personale privilegiata, ha detto di no. Non si è lasciato abbagliare dalla promessa di una pioggia di dollari e ha invece preteso subito lo stop totale alle sanzioni economiche, il che è parso un pretesto per buttare tutto all'aria, perché era ovvio che Trump non avrebbe potuto concedere tanto. Così il più forte dei due contendenti, che erroneamente riteneva di esercitare una superiorità psicologica ma che sembra piuttosto averla subita, ha dovuto lasciare il tavolo.
C'è da meravigliarsi di questo esito deludente del vertice di Hanoi? A ben vedere, no. E questo per una ragione principale: la Corea del Nord è altra cosa rispetto al Vietnam. Il negoziato impostato da Trump fin dalla prima tappa a Singapore è basato su un equivoco di fondo: che a Kim il benessere dei nordcoreani interessi almeno quanto la sopravvivenza del suo regime, ma non è così. La Corea del Nord non è un Paese, ma la metà (fallita, tra l'altro) di una nazione che si chiama Corea. Su questa metà il regime guidato con mano ferrea da Kim domina solo grazie alla violenza imposta dal partito comunista (sia pure nella sua particolare versione locale) sul suo stesso «mezzo popolo», e più ancora grazie alla forza del ricatto imposto ai suoi vicini per mezzo dell'arsenale atomico. Kim Jong-un, dunque, non solo non può e non vuole disarmare, ma non ha alcuna intenzione sincera di ammorbidire il regime o di aprire realmente alle influenze esterne il suo «mezzo Paese»: facendolo, verrebbe automaticamente meno la finzione politica, pagata da centomila prigionieri politici e da un semi-popolo privato dei diritti umani elementari, che permette a lui e alla sua corrottissima elite di vivere nel lusso, e la ragione stessa dell'esistenza di una Corea del Nord separata da quella del Sud. Pyongyang finirebbe nel museo della Storia esattamente come Berlino Est, e Kim farebbe la fine di Erich Honecker, costretto all'esilio e braccato dai suoi nemici.
Il Giovane Maresciallo si tiene dunque stretti i suoi missili e la fedeltà dei suoi generali. Gli interessano quelli, che sono la sua assicurazione sulla vita ben più dei dollari promessi da Donald Trump. Che probabilmente non ha ancora capito bene, distratto dalle grosse nubi che gli si addensano sul capo, chi davvero sia Kim Jong-un. Sul dossier coreano torna adesso l'incertezza.
Trump dovrà paradossalmente imitare i suoi predecessori che tanto ha criticato, e prendere tempo.
Torneranno a farsi sentire i suoi avversari politici e militari a Washington, infastiditi e preoccupati dalla sua liaison con il sanguinario dittatore che ha minacciato l'America di devastazione, i preoccupati alleati come il Giappone e perfino quelli, verso di lui meglio disposti, di Seul.
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