Il governo Renzi si prepara a passare, tra le pieghe della legge Finanziaria, oltre 600 milioni alle banche italiane per aiutarle a fare scivolare verso la pensione altri 25mila addetti. Se ne dovrebbe sapere di più lunedì o martedì, ma lo stanziamento complessivo si attesterebbe a 638 milioni, elargiti in ragione crescente tra il 2017 (100 milioni) e il 2018-2019 (200 milioni all'anno) per poi tornare a quota 100 nel 2020 e scalare a un «obolo» di 38 milioni nel 2021.
Nei piani la manovra, dietro cui resta un retrogusto politico visto l'approssimarsi del decisivo referendum costituzionale in agenda il 4 dicembre, costituirà l'innesco istituzionale all'atteso riassetto del settore. A partire dal difficile rilancio del Monte Paschi (che proprio lunedì dovrebbe annunciare 3mila tagli), alla vendita delle «nuove» Banca Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara (le prime tre dovrebbero finire ad Ubi Banca), e agli ulteriori esuberi attesi a Popolare Vicenza (1.500 la stima) e Veneto Banca (900).
L'aiuto pubblico alla «rottamazione» di cassieri e impiegati del back office rappresenta comunque una novità assoluta per l'intero settore. Fino a questo momento le banche avevano infatti provveduto alle ristrutturazioni da sole, alimentando l'ammortizzatore sociale del Fondo esuberi e chiedendo giornate di solidarietà ai dipendenti rimasti.
La ricetta ha funzionato per decenni: evitando da un lato ai loro colletti bianchi i disagi della cassa integrazione - cui sono invece costrette le tute blu della corporate Italia - e dall'altro proteggendo le banche dall'incalcolabile danno di immagine conseguente alla dichiarazione di un eventuale stato di crisi: il passo da qui alla fuga di depositi e correntisti sarebbe stato brevissimo.
Adesso, però, questo «patto armato» tra banche e sindacati non basta più a garantire i ritorni agli investitori e la pace sociale. A dimostrarlo sono gli 80 miliardi di sofferenze lorde che, malgrado le continue svalutazioni, continuano a inquinare i bilanci degli istituti di credito e una redditività ancora schiacciata ai minimi malgrado i ripetuti tagli ai costi decisi negli ultimi anni.
Non per nulla i nuovi 25mila esuberi potenziali attesi (questo il panel di quanti maturano i requisiti per il prepensionamento entro il 2023), si aggiungono ai 20mila già spesati nei piani di riassetto in essere nei principali gruppi creditizi e alle circa 40mila persone che hanno lasciato il settore nell'ultimo decennio. Senza contare che l'Fmi ha stimato in eccesso un terzo delle filiali europee: in Italia sarebbero, quindi, 9.800 sportelli su 29.500 per potenziali 65mila esuberi. Insomma il rischio di restare disoccupati per una parte dei 300mila bancari in servizio è ormai reale.
Da qui la decisione del governo di prelevare dalle casse dello Stato, e quindi dalle tasche di tutti noi contribuenti, appunto oltre 600 milioni di «aiuti». Il tutto impacchettato con astuzia tecnica per evitare le tagliole dell'Unione europea: la Finanziaria non prevederà infatti stanziamenti specifici per il credito ma per tutti i settori dotati di strumenti di sostegno al reddito e all'occupazione, come appunto le banche. E l'utilizzo del denaro sarà legato alle operazioni di fusione e agli esuberi concordati con i sindacati del settore Fabi, Fisac, First e Uilca.
«Se il governo finanzia il Fondo esuberi non aiuta le banche ma tutti i lavoratori bancari», sottolinea il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni che rilancia: «Di fronte alla pessima gestione, anche fraudolenta, di alcune banche i lavoratori non possono e non debbono essere lasciati soli. Chi dovesse parlare di nuovo regalo alle banche sarebbe profondamente iniquo».
Sebbene il malloppo in gioco sia notevole, va detto che sono circa 200 i milioni versati ogni anno dal sistema bancario italiano, che vede nell'Abi di Antonio Patuelli la propria lobby istituzionale, nelle casse dello Stato come sostegno ai fondi per la Cassa integrazione senza però mai utilizzarla: si calcolano 10 miliardi dagli anni '60 ad oggi.
«Non posso che attendermi che la legge di Stabilità preveda i 5-600 milioni di cui si parla per sostenere il Fondo del nostro settore, fermo restando la volontarietà degli esodi», sottolinea il capo della Fisac, Agostino Megale: «Perché è chiaro che chiunque pensasse a licenziamenti troverà lo sciopero generale».
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