Non c'è ancora, nella società italiana, un «generale apprezzamento positivo sull'eutanasia», e anzi vi sono «ampie correnti di pensiero che la contrastano». Non può bastare la condizione senza ritorno di un malato perché la sua soppressione possa rivestire un «particolare valore etico». Così ieri la Cassazione conferma la condanna di un uomo ormai vecchio: Giancarlo Vergelli, 85 anni, l'artigiano fiorentino che quattro anni fa aveva ucciso la moglie malata di Alzheimer. Fu un omicidio volontario, dicono i giudici, un omicidio in condizioni particolari, e infatti la pena è relativamente lieve: sette anni e otto mesi. Ma riconoscere un «particolare valore etico al suo gesto» al gesto dell'uomo darebbe per scontate convinzioni che nella società italiana non sono affatto unanimemente condivise.
La decisione della Cassazione arriva all'indomani di un'altra sentenza che ha riacceso l'attenzione sul tema del «fine vita», del rapporto tra dignità e diritto in situazioni in cui la malattia o l'infermità hanno preso il sopravvento. A Milano, la Corte d'assise ha sospeso il processo al radicale Marco Cappato, che accompagnò a morire il disc jockey Fabiano Antoniani, trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale perché valuti se la legge che proibisce sempre e comunque l'aiuto al suicidio sia al passo con i tempi. La Cassazione, nel caso dell'artigiano fiorentino, dà una decisione che sembra andare nel segno opposto: andiamoci piano con l'eutanasia.
I due casi, in realtà, non sono comparabili: Dj Fabo, ovvero Antoniani, era perfettamente cosciente, aveva deciso lucidamente di morire, e solo la sua paralisi totale gli impediva di esercitare autonomamente il suo diritto al suicidio; invece Nella Burrini, la moglie di Vergelli, era persa da tempo nelle nebbie dell'Alzheimer, e non era quindi in grado di esprimere alcuna volontà; e lo stesso Vergelli, dopo averla strangolata con una sciarpa, ammise di avere voluto porre fine non solo alle sofferenze della moglie ma anche alle proprie: «Non ce la facevo più». Ma è chiaro che entrambi i casi appaiono destinati a riaprire il dibattito sulle norme che in Italia regolano il tema delicato del «fine vita», solo marginalmente toccato dalla nuova legge sull'accanimento terapeutico.
Vergelli era stato condannato sia in primo grado che in appello, ed in entrambi i casi i giudici gli avevano rifiutato l'attenuante del «particolare valore etico». Nel ricorso in Cassazione, i suoi legali avevano sostenuto che l'uomo aveva deciso di «porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri espressi in vita». Ma di questi desideri non c'era traccia documentale, e d'altronde la decisione della figlia della coppia di costituirsi parte civile contro il padre faceva capire come il consenso preventivo della madre non fosse così scontato.
Ma le parole più severe la Cassazione le riserva ad un'altra tesi difensiva di Vergelli, che avrebbe ucciso la moglie anche per impedire, nel caso della propria morte, che il peso di mantenerla ricadesse sulle figlie, non potendola ricoverare in un istituto.
«È da escludere - si legge nella sentenza - che la consapevolezza della carenza di strutture pubbliche idonee a coadiuvare la famiglia nell'assistenza di congiunti gravemente malati e senza possibilità di guarigione, commista alla preoccupazione di gravare sula vita di altri congiunti, pure se moralmente e giuridicamente obbligati verso la persona malata, possa generare, secondo la coscienza etica prevalente nella collettività, la spinta volta a sopprimere la vita dell'infermo».
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