Roma - Oggi il governo di Matteo Renzi avrebbe dovuto garantire lo sblocco, almeno parziale, dei debiti della pubblica amministrazione. Sono i famosi 60 miliardi che le imprese aspettano da tempo e per i quali l'Italia è stata messa in mora dalla Commissione Ue. Appena arrivato a Palazzo Chigi, «SuperMatteo» aveva promesso che il dossier sarebbe stato chiuso entro luglio, poi per la data del suo onomastico, il 21 settembre, poi entro la fine del 2014. Non è successo niente: chi attende il pagamento continuerà ad aspettarlo anche nel 2015.
Ecco, una costante di questi primi dieci mesi di renzismo è stata proprio questa: una totale discrepanza fra le promesse e i fatti. A parole sono bravi tutti, con le slide ancora di più, ma poi arriva il momento di concludere e lì le parole, la narrazione da Scuola Holden di Alessandro Baricco non serve più, né tantomeno le battute e i calembour . C'è qualcuno che si ricorda della riforma del fisco entro maggio? Noi del Giornale siamo tra quei pochi. Anche perché di tutte le promesse era la più semplice da realizzare. La delega fiscale, concessa dal Parlamento a Enrico Letta, attendeva solo i decreti attuativi. Matteo avrebbe dovuto solamente spingere la palla in rete. E, invece, niente. Come un Egidio Calloni qualunque.
A volte bisogna concedere al giovane statista di Rignano le attenuanti. Ad esempio, lui aveva promesso le riforme elettorali e costituzionali a febbraio. Ma se il Parlamento mette, da una parte, l'Italicum su un binario morto e, dall'altra, lo obbliga a ringraziare Silvio Berlusconi per l'appoggio salvifico sull'abolizione del Senato lo scorso agosto, non si può certo fargliene una colpa. È che Matteo è fatto così: gli piace fare il ganassa anche quando sa che, nonostante le molte conversioni sulla via di Damasco, le truppe di Camera e Senato rimpiangono la segreteria di Pier Luigi Bersani e cercano di fargli scontare il parricidio dei ragazzi del Bottegone.
Certo, «il Bomba» (come lo chiamavano i compagni al liceo) è vendicativo. A giugno aveva detto che «sulle unioni civili ci sarà una proposta ad hoc del governo sul modello tedesco per settembre». Gli mettono i bastoni tra le ruote sulle riforme? Tac! Salta anche la legge che tanto attendono i pasdaran dell'ideologia gender . Con un risvolto negativo, però: è un'altra promessa non mantenuta.
E anche quando le attese vengono in qualche modo rispettate, la confusione è tale che non si può non evidenziarla. Prendiamo il Jobs Act. Doveva essere pronto per il fatidico primo tête-à-tête con Angela Merkel a marzo. Poi la riforma di Poletti è stata divisa in due tronconi (decreto e ddl), poi è stata inserita l'abolizione dell'articolo 18 che fino a settembre si diceva di non voler toccare («Riguarda 3mila persone», dixit ), poi è stata limitata l'applicabilità dei licenziamenti, poi sono stati salvati gli statali. Insomma, o la riforma è stata messa in opera da bambini di terza elementare (con tutto il rispetto per gli ottenni) o si è cercato di accontentare l'Europa senza scontentare lo zoccolo duro dei dipendenti pubblici che votano Pd.
Sorvoliamo, per carità di patria, su una spending review che si basa esclusivamente su tagli lineari a Regioni e Comuni (che si rivarranno sui cittadini aumentando le tasse, prima o poi) e che vale circa 8 miliardi sui 20 annunciati. E stendiamo un velo pietoso sul bonus di 80 euro a spese dei risparmiatori (aliquota sulle rendite al 26%).
Ma sull'ottimismo della strafottenza non si può transigere. «Le previsioni di crescita sono prudenti (+0,8%), ma saranno smentite», proclamò il nostro. Se va bene, il 2014 si chiude con un Pil al -0,3% e l'anno nuovo ne sconterà purtroppo gli effetti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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