È stata una giornata campale quella di ieri a Hong Kong. Una giornata, quella del primo luglio in cui cadeva il ventiduesimo anniversario del passaggio della ex colonia britannica alla Cina, di sfida aperta al governo filocinese e che avrebbe potuto concludersi nel sangue, ma che sembra invece aver trovato un epilogo più sensato. Centinaia di giovani in assetto da guerriglia urbana hanno occupato la sede del Parlamento locale dopo aver sfondato i suoi ingressi sbarrati. Le immagini in diretta hanno fatto il giro del mondo. Abbiamo visto gli studenti, avanguardia arrabbiata e disillusa di milioni di cittadini che nei giorni scorsi avevano invaso le strade fino a ottenere la temporanea sospensione di una legge liberticida (ancora ieri hanno manifestato oltre mezzo milione di persone su una popolazione totale di 8 milioni), avanzare compatti provocando allo scontro la polizia. Che alla fine ha scelto di arretrare, lasciando via libera alla presa dell'edificio simbolo di un potere che solo nominalmente è democratico. Li abbiamo visti usare sbarre e carrelli per sfondare le porte, sciamare nell'emiciclo, dispiegare striscioni neri con la scritta «Nessun passo indietro», scrivere sulle pareti richieste di libertà e insulti al governo locale. Che è obiettivamente al servizio della Cina comunista, ma ancora in qualche modo obbligato a tener conto della volontà popolare, avendo Pechino firmato nel 1997 un impegno a rispettare le libertà democratiche della città per cinquant'anni. Abbiamo visto soprattutto esporre all'interno dell'edificio «dissacrato» la vecchia bandiera della Hong Kong coloniale, con la Union Jack in campo blu: una provocazione per dire «meglio servi degli inglesi che dei comunisti di Pechino».
La reazione del governo di Hong Kong, presieduto dalla detestata signora Carrie Lam, è stata fredda e netta: la violenza usata contro il Parlamento è «estrema e inaccettabile». Così la polizia ha inviato un ultimatum: abbandonare il Parlamento pacificamente, o aspettarsi entro poche ore «un uso appropriato della forza». Già a mezzanotte centinaia di agenti in tenuta antisommossa marciavano verso il Parlamento, seguiti sinistramente da decine di furgoni cellulari destinati ai futuri arrestati. Unica incertezza, nei momenti che precedevano il contatto, era se sarebbe stato violento. Ma scontri, per fortuna, non paiono essercene stati: l'edificio è stato sgomberato, ma sembra che la maggior parte degli studenti abbiano approfittato dell'ultima opportunità concessa loro di dileguarsi da uscite secondarie e sparire nella notte.
Chi siano questi giovani che hanno scelto di provocare una situazione molto pericolosa lo ha detto chiaramente una ragazza intervistata durante l'attacco. «Hong Kong lotta da settimane contro una minaccia estrema: la legge sull'estradizione in Cina significa mandare ai tribunali del regime di Pechino chiunque dissenta. Solo perché eravamo in strada a milioni hanno dovuto sospenderla, ma sono pronti a riproporla. Il governo di qui non ci ascolta perché è asservito, l'opposizione è impotente, ci lasciano solo la scelta di lottare perché Hong Kong rimanga una città libera».
Tutte illusioni: la sorte di Hong Kong è segnata. È solo questione di tempo: Xi Jinping vuole che da qui al 2047 la ex colonia britannica sia indistinguibile dal resto della Cina comunista, immensa e strapotente. Un traguardo che punta a tagliare in anticipo. I coraggiosi ragazzi che sognano la rivoluzione liberale hanno pochi amici nel mondo libero in cui confidano: Londra potrebbe alzare la voce con Pechino, sollevare il caso all'Onu, chiedere il sostegno europeo. Ma fa poco e niente.
L'America di Trump punta a un'intesa con Xi che passa ben sopra le teste di chi a Hong Kong si dispera: non farà nulla per aiutarli, come nulla fece trent'anni fa quando fu strage in piazza Tienanmen. E intanto la vicina Taiwan si arma fino ai denti: già sa che il prossimo turno sarà il suo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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