Uno striscione sbandierato nei viali parigini in questo sabato di sommossa azzarda un ambizioso paragone storico: «1789 Rivoluzione - 1968 Maggio Francese - 2018 ...». Parigi ha un'antica tradizione di sollevazioni di piazza: la prima di quelle qui ricordate finì con la decapitazione di un re, la seconda mancò di poco quella (si suppone virtuale) di un generale con la fama di duro. E la terza, tuttora in corso, fa traballare la poltrona di un presidente incapace di farsi amare dal suo stesso popolo.
Emmanuel Macron, effettivamente, si trova in una posizione difficile. Troppo concentrato sulle sue elevate ambizioni europee, ha perso il contatto con i cittadini francesi ed è riuscito nel capolavoro all'incontrario di dilapidare un patrimonio di popolarità almeno potenziale che un incredibile concorso di casualità gli aveva consegnato un anno e mezzo fa insieme con le chiavi dell'Eliseo. Abituato alla torre d'avorio destinata al ragazzo prodigio che non ha mai dovuto fare gavetta politica e mescolarsi alla gente comune, ha continuato a gestire il potere trasmettendo una gelida distanza per i problemi di persone che, in fondo, conosce poco o nulla.
L'incendio che ha raggiunto il cuore di Parigi è stato appiccato lontano dalla capitale per mano di persone semplici che chiedevano un riequilibrio a loro favore di misure ambientaliste pensate e approvate solo da élités benpensanti. E quando lui si è rifiutato di ascoltare le loro ragioni ha compiuto un suicidio politico di cui solo adesso si apprezzano le vere dimensioni: le fiamme sono dilagate, e ora in Francia prende forma in modo tutt'altro che trasparente un'opposizione aggressiva dai toni populisti e antisistema.
Il problema non sta solo nell'evidente difficoltà di Macron a relazionarsi con le persone reali, ma anche nella natura posticcia della struttura politica che lo sostiene: un partito politico artificiale e sostanziato da personale arruolato in tutta fretta e in circostanze del tutto particolari come la disfatta inattesa dei partiti tradizionali che favorì l'assalto al carro del nuovo vincitore.
Circondato da questo mondo evanescente, Macron non trova sostegno tra i francesi (l'ultimo sondaggio di popolarità indica un deprimente record negativo del 23%) né alleati nel mondo politico, tutto preso dal cercare di mettere il cappello sulla popolarissima - quella sì - rivolta dei gilet gialli (è il caso delle estreme di destra e di sinistra) o di recuperare i consensi che il presidente senza partito aveva loro sottratto (questo sperano la destra moderata e i socialisti). Per non parlare della coltellata alla schiena rifilatagli dal suo nemico americano Donald Trump, che infierisce sbertucciandolo sul fallimento del suo piano ambientalista e dandogli lezioni non richieste di politica fiscale.
A risentire degli effetti destabilizzanti della sindrome dell'assedio all'Eliseo non è soltanto il suo inquilino: sono le stesse istituzioni della République a rischiare sotto gli attacchi di un populismo sovranista che finora aveva fatto breccia, ahinoi, soltanto in Italia. Senza dar troppo credito ai timori di un colpo di Stato, circolano a Parigi voci di un Macron depresso e sfiduciato che starebbe considerando l'ipotesi di elezioni anticipate, forse per non dare ai suoi odiati nemici populisti il tempo di organizzare un fronte nuovo per batterlo, dopo che la Le Pen e Melenchon hanno dimostrato di non essere in grado di farlo con le proprie insegne.
Potrebbe essere l'ultimo errore della sua presidenza: l'eventualità che la Francia precipiti nel caos politico sarebbe un colpo durissimo per l'euro, l'Ue, la Nato e tante altre cose che siamo abituati a dare per scontate ma non lo sono.
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