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"Fu don Bruno a indicarmi quel ragazzo un po' gasato. La mia vita non cambierà con i suoi trenta milioni"

"Quando il notaio Roveda mi ha chiamato alle sette del mattino e mi ha detto Berlusconi le ha lasciato 30 milioni, mi sono messo a piangere"

"Fu don Bruno a indicarmi quel ragazzo un po' gasato. La mia vita non cambierà con i suoi trenta milioni"

La confessione arriva subito: «Quando il notaio Roveda mi ha chiamato alle sette del mattino e mi ha detto Berlusconi le ha lasciato 30 milioni, mi sono messo a piangere».

Non se l'aspettava?

«No, per niente e ho pianto ancora di più quando il notaio mi ha letto la motivazione: Perché ho voluto bene a Marcello e Marcello ha voluto bene a me».

Marcello Dell'Utri è un fiume in piena e in pochi minuti, fra emozioni e commozione, prova a ripercorrere i cinquant'anni e più trascorsi con Silvio.

Come l'ha conosciuto?

«Iniziavo l'università sul finire degli anni Sessanta. Dovevo venire a Milano e non conoscevo nessuno. Un amico oggi sacerdote, don Bruno Padula, mi telefona e mi dice: Ti do il numero di un mio amico, è un po' gasato ma è bravissimo e si è appena laureato. Ti auterà. Così mi sono presentato in via Mercato 5, dove Silvio aveva appena aperto gli uffici dell'Edilnord, e l'ho incontrato».

Risultato?

«Berlusconi aveva grandi capacità di sintesi e di ogni esame preparava gli appunti ciclostilati che vendeva in una copisteria di via Festa del Perdono, davanti alla Statale».

A lei ha fatto lo sconto?

«No, mi ha regalato l'opuscolo che mi serviva per il primo esame, filosofia del diritto. Non solo».

Che altro?

«Mio padre mi diceva sempre: Sai, a Milano ti tratteranno in modo sbrigativo, non è come qui a Palermo. E invece si sbagliava».

Perché?

«Mi invita a cena a casa sua, in viale Zara, dove abitava, e mi fa conoscere tutta la famiglia: il padre, la madre, Paolo e la sorella Maria Antonietta. Mi sono trovato benissimo e siamo diventati amici. Poi abbiamo anche messo su una squadra di calcio per ragazzi di 14-16 anni: lui naturalmente era il presidente, io l'allenatore, Paolo, suo fratello, il centravanti».

Il momento più importante, fra tante vicende, qual è stato?

«Per me senz'altro quando nel 1981 mi ha chiamato e mi ha messo alla testa di Publitalia, la macchina per la raccolta pubblicitaria delle sue tv. Quella è stata un'opportunità decisiva che mi ha regalato».

Non vi siete mai persi di vista?

«No, a un certo punto sono andato a Roma, a dirigere un centro sportivo dell'Opus Dei, ma poi sono tornato indietro. Sono diventato assistente di Silvio, poi è successo tutto il resto».

Compreso l'arrivo di Vittorio Mangano, lo stalliere.

«Ancora con questa storia».

Scusi, ma la cassazione l'ha condannata con sentenza definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

«Mi hanno massacrato, ma si sono inventati tutto. La verità è che cercavamo ad Arcore qualcuno che avesse dimestichezza con i cavalli e non lo trovavamo. A un certo punto, mi viene in mente Mangano che per quanto mi riguarda non era un mafioso ma quel che serviva al caso nostro. L'ho chiamato a Palermo e gli ho chiesto se in Sicilia c'era qualcuno che avesse familiarità con i cavalli, in grado di venire a Milano e seguire la scuderia».

Lui?

«Se è Berlusconi, mi ha risposto, vengo io. Era il giugno 1974 e Mangano ha portato ad Arcore tutta la famiglia. Dopo sei mesi, a dicembre, se n'è andato. Anche se poi ho letto cose incredibili: per qualche giornale è rimasto da noi due anni. Tutte panzane».

Nel 1974, secondo la Cassazione, ci fu l'incontro con il boss Stefano Bontate.

«Ma chi l'ha mai visto. Non c'è niente di vero».

C'è un verdetto irrevocabile.

«Un attimo. Io dieci anni fa ho fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo e spero che presto, prestissimo, Strasburgo annulli questo verdetto e la pena che peraltro ho finito di scontare».

Dicono che Berlusconi abbia comprato con quei trenta milioni il suo silenzio. È l'ultimo sfregio?

«Si. Io non mi aspettavo niente di niente. E non c'era niente da nascondere».

Chi era Berlusconi?

« L'ho capito quando è morto. Mi è cascato il mondo, perché Silvio mi dava la carica, aveva un'energia straordinaria, era ottimista, era generoso, era sempre disponibile. Quando ero giù, mi diceva: Dai, vieni ad Arcore, mangiamo e stiamo insieme un po'. Così per una vita».

Come fu la discesa in campo?

«Il pentapartito era franato e non si trovava nessuno che volesse continuare quell'esperienza moderata. Lui si dannava, andò a parlare da Segni, da Martinazzoli, ma niente, nessuno si faceva avanti per contrastare i postcomunisti che parevano destinati a conquistare il potere».

Insomma, non fremeva all'idea di cimentarsi in prima persona nella contesa politica?

«Ma no, fino all'ultimo si ostinò a cercare un candidato leader, ma non saltava fuori nessuno, niente di niente. E un bel giorno si scocciò».

Le tenne un discorsetto?

«Più o meno questo: Sai che facciamo? Lo facciamo noi il partito. E io gli chiedo: E come si fa? E che ne so? Lo fanno tutti lo facciamo anche noi».

Tutto qua?

«Così è nata Forza Italia ed è venuta al mondo la doppia coalizione: la Lega al Nord e Alleanza nazionale al Centrosud. Subito dopo mi ha dato l'incarico di individuare i possibili candidati pescandoli dal meglio di Publitalia. Avevo il divieto di cercare fra i politici e allora mi sono messo all'opera fra i miei quadri e dirigenti».

Sopravviverà Forza Italia?

«Si, credo di si. È quello di cui Berlusconi si è occupato negli ultimi giorni della sua vita, anche se nessuno pensava ad una fine imminente, e io immaginavo che sarebbe stato lui a declamare il mio elogio funebre».

Avete parlato di Forza Italia nel vostro ultimo colloquio?

«Sì, tre giorni prima di morire, mi ha spiegato che stava ripensando il partito e mi ha chiesto di occuparmi della selezione dei candidati. Tu capisci le persone, sai scegliere, sai valutare. Insomma, aveva in testa le nuove regole del partito e so che ha girato queste sue considerazioni e intuizioni a Tajani che ne farà tesoro per il futuro».

Cosa farà di quei 30 milioni?

«È presto per pensarci. Qualcosa andrà sicuramente alla biblioteca che sta nascendo su mio impulso nella Valle dei Templi ad Agrigento. Sarà la biblioteca più importante di testi pubblicati in Sicilia e libri sulla Sicilia. È un progetto che è partito tre anni fa e che deve essere pronto per l'anno prossimo: nel 2025 Agrigento sarà la capitale della cultura, un'occasione imperdibile. Ma in ogni caso, la mia è una donazione modale: è legata alle condizioni che ho posto, necessarie per arrivare a risultati importanti. Ci saranno master e un laboratorio per il restauro dei volumi e della carta».

Non ha risposto: come spenderà quei soldi?

«Prima li devo vedere».

Non si fida?

«Sì, ma la mia vita ormai è questa e non cambierà.

Aspettiamo, quando sarà il momento ci penserò».

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