C' è qualcosa di dissonante nella coreografia dell'addio di Luigi Di Maio: sullo sfondo lo slogan che identifica la nuova classe dirigente del Movimento, il «team del futuro», e sul palco il leader che si appresta a diventarne il passato. Ma, nella testa di Di Maio, questa è solo una ritirata strategica. Un piano che però deve fare i conti con una selva di incognite, non ultime le ripercussioni sul consenso e le mire degli alleati di governo.
Il M5s si appresta a vivere giorni difficili e a tentare una trasformazione e un rilancio che allo stato paiono davvero ardui. Tra pochi giorni il voto in Emilia e quello in Calabria, se le previsioni saranno rispettate, saranno un nuovo bagno di sangue. L'ennesimo che Di Maio avrebbe dovuto affrontare e giustificare davanti ai suoi da quando, nel 2017, è stato incoronato leader politico della creatura di Beppe Grillo, grazie soprattutto a un asse di ferro con Davide Casaleggio. Difficilmente Di Maio avrebbe potuto sopportare l'ennesimo processo al leader sconfitto e ha preferito filarsela spontaneamente con un beau geste ben costruito e ben presentato, dal sorriso fino all'eterno nodo della cravatta che si scioglie simbolicamente. Con una semplice mossa, Di Maio tenta di trasformarsi da eterno perdente catalizzatore di tutte le frustrazioni a leader rimpianto. Un processo di rivalutazione che in Italia è quasi naturale. La vera sfida è portarlo a compimento in pochi mesi. A marzo, infatti, gli «stati generali» grillini decideranno innanzitutto se la nuova guida del Movimento sarà collegiale, come vorrebbe una larga fetta dei parlamentari che ha sofferto terribilmente il centralismo di Di Maio e dei suoi centurioni, l'odiato «team della comunicazione» che il ministro degli Esteri ha infatti tenuto a citare nei ringraziamenti con particolare enfasi, oppure affidata di nuovo a un solo uomo. Di Maio sa che nel breve non ci saranno rivoluzioni, non fosse altro perché lascia le redini nelle mani di uno dei suoi fedelissimi, Vito Crimi. Dopo la nuova batosta alle regionali, la sequela di abbandoni di parlamentari che è in corso e a fronte delle liti che dilanieranno il Movimento agli Stati generali, confida di poter essere richiamato come salvatore della patria. Resta da capire che farà Alessandro Di Battista, sempre che si dimostri capace di scendere nell'arena.
Ma soprattutto, resta da vedere come muterà il quadro politico generale dopo il voto in Emilia Romagna. Il Pd si appresta all'ennesima trasformazione. E se è chiaro che Zingaretti sta pilotando un ricollocamento a sinistra, nel partito è alacremente al lavoro Dario Franceschini, il tessitore, insieme a Matteo Renzi, del patto che ha portato alla nascita del governo. Fallito il piano di creare alleanze organiche alle regionali, il ministro della Cultura continua a lavorare a uno schieramento più largo. A Napoli, in occasione delle elezioni suppletive per un seggio al Senato, il Pd ha chiuso l'alleanza con un altro movimento populista, il «Dema» del sindaco Luigi De Magistris, con il via libera di Italia viva. L'aggancio fallito con i pentastellati non scoraggia i pontieri dem. Anche perché, si ragiona, resta da vedere che evoluzione avrà il M5s.
Con la legge elettorale proporzionale in preparazione, non è necessario pensare a coalizioni in senso stretto. Le forme di cooperazione possono essere diverse. Zingaretti, in fondo, ieri lanciava messaggi chiari: «Anche per il M5s è arrivato il tempo delle scelte». A che tipo di scelte si riferisse non è un mistero: «Io penso che schierarsi contro il centrodestra sia un punto dirimente», precisa il segretario dem. Che a sua volta sta preparando una rivoluzione nel partito che, non escludendo il cambio del nome, serve anche a cancellare la frattura con la porzione di elettorato fuggita verso i 5 Stelle.
Beppe Grillo da tempo spinge a sinistra e considera Di Maio un ostacolo, Casaleggio punta a restare al centro per cogliere occasioni in tutte le direzioni.
Ma per fare l'ago della bilancia, ragionano i dem, servono i voti. Un crollo del consenso finirebbe con la frantumazione del M5s, con pezzi che cercano di ricollocarsi nei due schieramenti tradizionali a destra e sinistra. E il Pd è pronto a raccogliere i cocci.
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