La generazione dannata degli '80 «Devono lavorare fino a 75 anni»

Paolo Bracalini

«Generazione Y», maper alcuni demografi il termine giusto è un altro: generazione cavia. La linea d'ombra che divide i salvati (ma con gradazioni molto diverse) dai perduti è il 1980. Quelli nati dopo sono le cavie che rischiano di pagare il conto per tutte le sbornie delle generazioni precedenti. E di lavorare più del doppio rispetto ai loro stessi genitori, molti dei quali - mezzo milione di attuali pensionati - godono di un assegno previdenziale addirittura da 36 anni. È il mix micidiale tra riforme del sistema pensionistico, intermittenza del lavoro e un decennio di crisi economica a proiettare sempre più lontano il miraggio di una pensione pubblica per gli «Eighties».

L'Inps ha studiato il caso della classe 1980 come «generazione indicativa» delle future pensioni, e il quadro non è per niente buono. «Non voglio terrorizzare», mette le mani avanti il presidente dell'istituto Tito Boeri, «ma solo rendere consapevoli dell'importanza della continuità contributiva». Dalla simulazione sul campione degli attuali 36enni emerge infatti un buco nei contributi previdenziali dovuto ai periodi di disoccupazione tra un lavoro e l'altro, fattore che sposta anche di cinque anni il traguardo della pensione. Fino, cioè, alla veneranda età 75 anni, che i trentenni raggiungeranno nel 2055, non prima di altri quarant'anni di lavoro perché altrimenti «privi dei requisiti minimi». Una maratona infinita. Il rischio, visto che il problema non migliora per i ventenni (fascia con un tasso di disoccupazione record) è di «avere intere generazioni perdute» avverte Boeri, che spinge per una immediata riforma della flessibilità in uscita come correttivo per la sostenibilità dell'Inps. Una polveriera che rischia di travolgere i più giovani per mantenere i privilegi (pensioni d'oro, trattamenti di favore per certe categorie e corporazioni) e le storture (baby pensioni, vitalizi calcolati col retributivo) del passato.

Una generazione cavia, che si è affacciata nel mondo del lavoro proprio mentre il mondo del lavoro veniva cambiato (più flessibilità, addio posto fisso) dalle riforme Treu e poi Biagi, e che ha cominciato anche solo a immaginare una pensione proprio mentre la legge Fornero già gli aumentava l'età pensionabile. I nati negli anni '80 (circa 7 milioni di italiani, dice l'Istat) devono ingoiare un paradosso dietro l'altro. Hanno studiato di più, viaggiato di più, parlano più lingue, sperimentato più lavori, fatto più fatica a trovarli rispetto ai loro genitori, ma a parità di età guadagnano molto meno, e in compenso prenderanno pensioni molto più basse (sotto i 750 euro per circa il 40% delle donne e il 23% degli uomini) e dopo molti più anni di lavoro. La tabella storica dei redditi in Italia spiega tutto. Fatto cento il reddito medio nazionale, solo nel 1991 i trentenni guadagnavano 104, oggi siamo scesi a 88. Nel frattempo i redditi dei sessantenni sono cresciuti fino a 123 rispetto a vent'anni fa, aprendo una voragine tra le due classi di età. Gli anziani (pensionati) sono più benestanti, i loro figli e nipoti (lavoratori) più poveri.

Un cortocircuito che si risolve col welfare famigliare. Secondo il Censis nel 2014 dai conti correnti dei genitori a quelli dei figli sono passati 4,8 miliardi di euro, senza i quali la «generazione Y» non tirerebbe avanti. E così le cavie, destinate a lavorare (sempre che il lavoro ci sia) fino a 75 anni per una magra pensione, conquistano pure l'epiteto di «bamboccioni». Anche a loro arriveranno le buste arancioni Inps con la simulazione della futura pensione. Questa settimana, assicura Boeri, partiranno le prime 150mila.

Con grande ritardo perché «c'è stata paura nella classe politica di essere puniti sul piano elettorale». Per via degli assegni più bassi delle aspettative. E ora, per i trentenni, anche con la prospettiva di non vederli prima del 2055.

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