Il gioco rischioso di Teheran: colpire i sunniti sperando che Russia e Usa non reagiscano

L'Iran vuole controllare la regione. Ma provocare può innescare il conflitto

Il gioco rischioso di Teheran: colpire i sunniti sperando che Russia e Usa non reagiscano

Quello tra Donald Trump e gli ayatollah iraniani è un confronto diseguale. E non solo e non tanto per l'evidente superiorità militare che gli Stati Uniti potrebbero dimostrare se davvero decidessero di passare all'uso della forza come già certi «falchi» del Congresso pretendono. La differenza sta nella enorme differenza di obiettivi tra i duellanti di questa crisi gravissima: Trump è un presidente alla disperata ricerca di un successo franco e forte in campo geopolitico da spendere in campagna elettorale (e lo vuole attraverso la diplomazia, per questo ha cacciato John Bolton, il consigliere che voleva la guerra con Teheran), mentre al regime islamico iraniano la pace, semplicemente, non interessa. All'Iran interessa il dominio regionale costi quel che costi, il che significa non solo l'affermazione della nazione iraniana ma anche e soprattutto quella della Shia, la corrente minoritaria dell'islam che si contrappone a quella maggioritaria sunnita: per questo cercano di dotarsi della bomba atomica e attaccano l'Arabia Saudita, che dell'odiato mondo sunnita è il capofila.

In queste ore si discute molto se siano stati davvero gli Houthi dello Yemen a far arrivare una decina di droni armati sulle più strategiche installazioni del sistema petrolifero saudita, devastandole e gettando nel caos il fragile mercato mondiale del greggio. Gli americani si dicono certi delle loro informazioni d'intelligence, e puntano il dito direttamente contro l'Iran, minacciando di chiamarlo a pagare le conseguenze (forse anche militari) dell'attacco condotto in Arabia. L'Iran nega sdegnato e ritorce contro Trump l'accusa preferita del repertorio presidenziale («fake news!»), dicendosi al tempo stesso «pronto a una guerra vera e propria» con gli Stati Uniti. La Cina, tra i principali acquirenti del petrolio iraniano, fa sentire la sua voce e accusa gli Usa di irresponsabilità: dove sono le prove, chiede Pechino? Chissà se arriveranno mai, queste prove della responsabilità iraniana. A buon senso ci si domanda essendo gli Houthi yemeniti finanziati e armati da Teheran chi mai potrebbe aver loro fornito gli armamenti per devastare Abqaiq e Khusair. E se mai questi miliziani sciiti, che nello Yemen conducono una guerra in nome dell'Iran, oserebbero fare una mossa del genere senza l'assenso dei loro padroni.

Sono ormai mesi che bersagli sauditi e britannici (nemici dell'Iran) vengono colpiti direttamente o per procura, e sembra surreale negare che un conflitto sia già cominciato. Il pericolo, semmai, è che questo conflitto si estenda. La partita che giocano gli iraniani è cinica e pericolosissima. Infliggere ai sauditi il colpo più duro possibile negandone la responsabilità contro ogni logica, proprio come fece il loro alleato russo Vladimir Putin quando le sue forze armate invasero la Crimea nel 2014 approfittando di quello che pare loro il momento più favorevole: quello in cui a Donald Trump conviene di meno fare ricorso alle armi contro di loro. Il rischio che si assumono, naturalmente, è altissimo: l'Occidente non può permettersi che il mercato del petrolio vada realmente fuori controllo (per ora ha subito «solo» un forte contraccolpo), e a Washington la tentazione di far pagare a Teheran il prezzo della sua spregiudicatezza potrebbe farsi strada.

Per ora, anche considerazioni commerciali frenano i falchi: sia agli Usa sia alla Russia, grandi produttori di petrolio, non dispiace approfittare della temporanea riduzione forzosa della produzione saudita. Gli affari sono sempre affari.

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