Il «Giorno Uno» della Milano addormentata tra strade deserte e voglia di riscossa

Treni vuoti, hotel sbarrati, cantieri fermi: la città locomotiva d'Italia è stata colpita al massimo della velocità. Ma è decisa ad andare avanti

Milano Il treno per Camnago-Lentate delle 18,23, di solito pieno come un pullman per Islamabad: ieri sono su in dieci. Il Grand Hotel de Milan, dove Verdi esalò gli ultimi sospiri: portone sbarrato; cento metri più in là, il suo epigono nella modernità, l'Armani Hotel, sbarrato anch'esso. Il luna park dietro il Castello, che gli ambientalisti non volevano e i bambini affollavano: spento, plumbeo, non smantellato, ma tanto la Casa dei Fantasmi ce l'abbiamo qua. La nuova sede della Microsoft a Porta Volta, che è tutta fatta di vetro: e così si ha la certezza che dentro non c'è nessuno. Lì davanti, dritta e buia come la notte, via Paolo Sarpi, la Chinatown milanese, che ha abbassato le saracinesche tutta insieme la settimana scorsa, per ordine del governo di Pechino: fece impressione, e nessuno immaginava che era solo un anticipo di quanto aspettava tutta Milano.

É il Giorno Uno del lungo sonno che attende questa città fino a ieri crudele e allegra, dinamica e ironica. E che viene folgorata dal coprifuoco come un'atleta in una istantanea, un tuffatore sospeso a mezz'aria dal fermo immagine. Sì, perché era da cinque anni secchi, da quella Expo che l'aveva lanciata e dopata, che Milano sembrava lanciata in un'orbita senza limiti, dove tutto andava bene e piovevano i soldi e nascevano idee e grattacieli e tutti erano contenti: e amen se il resto del Paese arrancava e invidiava. Il virus centra l'atleta-Milano al punto più alto del suo salto, e sa Dio quale sarà l'atterraggio che ora attende la città.

Basta girare in questo deserto per toccare con mano la brutalità dell'arresto. I grandi cantieri che nella narrazione trionfale ridisegnavano il volto urbano, improvvisamente inerti. Lo Storto, il terzo grattacielo germinato sulla vecchia Fiera campionaria, bloccato al ventisettesimo piano: le gru immobili, una ruspa che si aggira smarrita come un gatto randagio. Davanti a San Vittore, nel cantiere della nuova metropolitana, c'è solo il guardiano indiano che vigila sul nulla. In piazza Lugano, il gigantesco quartiere sul vecchio scalo ferroviario sembra un set abbandonato precipitosamente a metà delle riprese. Tanti negozi hanno le insegne e gli interni accesi, come se l'eruzione li avesse colti alla sprovvista: o forse hanno fatto apposta, e quelle luci fossero lì a dire «torniamo presto».

Quanto questo possa durare - economicamente e psicologicamente - oggi nessuno lo sa. Il Giorno Uno racconta di sacche di resistenza umana, come se la gente cercasse già una nuova quotidianità. In via Ripamonti, davanti all'Esselunga, la coda per entrare: non è psicosi da accaparramento, serve solo a non affollarsi dentro. Al parco Ravizza i runner, che nel dubbio si autoconsiderano abilitati a uscire, si schivano non a un metro ma a due o tre. In via Spadolini, i vigili che chiedono conto ai padroni dei cani della distanza da casa: perché la licenza per la pipì di Fido vale solo fino all'aiuola più vicina.

Sopravvivono i servizi essenziali, e questo ha un effetto straniante: i militari proteggono il niente di piazza Duomo, il tram sferraglia in corso Sempione con un solo passeggero, le squadre di netturbini raccolgono le foglie nei giardini della Comasina. Ma i bambini e i ragazzi delle periferie, quanto dureranno chiusi in case da quaranta metri? E infatti in via Dora Baltea, a Bruzzano, si pigiano in otto in un microcampo di calcio senza che nessuno osi dirgli nulla.

Intanto però sono fiorite le forsizie e i pruni. E anche loro, come le vetrine accese dicono: Milano va avanti.

LF

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