Fra il panettone e lo champagne, la Procura di Bergamo recupera un antico reperto di archeologia giudiziaria e prova a trasformarlo in un processo. È incredibile, ma dopo diciotto anni di inchiesta e pasticci di ogni genere ora per 34 camicie verdi scatta la richiesta di rinvio a giudizio per «aver promosso, costituito, organizzato o diretto un'associazione di carattere militare». Sì, la mitica Guardia nazionale Padana di cui si erano perse le tracce fra le brume degli anni Novanta. I pm, invece, hanno la memoria lunga come gli elefanti e del resto l'obbligatorietà dell'azione penale, anche quando sfiora il ridicolo, non consente alternative. E allora sarà il gip di Verona a decidere se andare a dibattimento. «Sono senza parole - spiega al Giornale il segretario del Carroccio Matteo Salvini - ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. E però chiederemo conto dei soldi spesi per spedire a dibattimento militanti della Lega che oggi sono padri di famiglia o nonni. Così la comunità internazionale ci riderà dietro».
In effetti questa storia nasce fra squilli di tromba nel lontano 1996. Sono gli anni della Lega dura e pura, del celodurismo, delle minacce di secessione armata. Secondo l'allora procuratore di Verona Guido Papalia, che intercetta a lungo i militanti, la Guardia Nazionale Padana sarebbe stata costituita con l'obiettivo di pianificare la resistenza contro Roma ladrona e ottenere anche con i fucili e le pistole il distacco dall'Italia. Ecco, dunque, il reato contestato: la banda armata. Insomma, lo stato maggiore del Carroccio sarebbe una centrale terroristica. Un'accusa davvero forte che cade per logoramento, all'italiana: l'accusa sonnecchia per anni e anni davanti a una contestazione che, sulla carta, configura un pericolo grave per la democrazia. Intanto inizia un vorticoso carosello che coinvolge la magistratura, la Corte costituzionale, il parlamento. Le Camere si mettono di traverso e decretano «l'insindacabilità delle condotte degli indagati parlamentari». Escono di scena Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli, Mario Borghezio. Poi nel 2010 due decreti legislativi cancellano un altro decreto, del 48, e con quello il reato di associazione a carattere militare con finalità politiche. Ma nemmeno la nuova norma ad Legam basta per chiudere la telenovela del Carroccio. I giudici di Verona mandano le carte alla Consulta e la Corte costituzionale dà loro ragione. Il procedimento può ripartire, anche se amputato dei generali in camicia verde e fuori da tutti i parametri del buonsenso.
Il processo parte finalmente ma i colpi di scena non sono finiti. Dopo la prima udienza si scopre che la competenza non è di Verona, come avevamo capito per tutto questo tempo, ma è di Bergamo. Sì, perché l'atto fondativo del Comitato provvisorio per la liberazione della Padania avvenne a Pontida il 2 giugno '96. «In effetti - aggiunge sarcastico Salvini - hanno scoperto che Pontida è in provincia di Bergamo e non in Veneto». Così le carte traslocano in Lombardia e tornano in procura. Ora i pm ci riprovano. Fra i 34 imputati l'ex senatore Corinto Marchetti e l'ex sindaco di Treviso Giampaolo Gobbo. In pratica, sul banco degli imputati arriva il servizio d'ordine voluto dalla nomenklatura leghista nell'epoca ruggente. Allora l'addio all'Italia pareva a portata di mano e il Carroccio non si era ancora convertito in un movimento dalle ambizioni nazionali, con propri rappresentanti anche al Sud. Del resto questo succede quando la storia prova a rubare il posto alla cronaca. «Questa vicenda non ha né capo né coda - afferma al Giornale il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli - è un pastrocchio che ha bivaccato e girovagato fra istituzioni varie per troppo tempo.
Io sono rimasto sotto indagine credo per tredici anni». E sconcerta che tutto questo avvenga mentre a Torino cade l'accusa di terrorismo per i No Tav che avevano provocato danni al cantiere dell'Alta velocità in Val Susa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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