Le nuove nomine nel governo cinese ma anche la lunga lista di conferme dei titolari di posizioni chiave di potere - sono nel segno della stretta fedeltà al presidente Xi Jinping e della sfida al rivale globale statunitense. Già nei giorni scorsi la designazione a premier di Li Qiang, conosciuto da tempo per la sua vicinanza politica a Xi, aveva confermato questa linea. Adesso una serie di aggiustamenti la precisano meglio, mentre accanto ad essi alcune novità strutturali accentuano l'ormai nota tendenza al rafforzamento del controllo del partito comunista oltre che sulla società, come dal 1949 a questa parte sull'economia. Ed è il colpo finale alle riforme liberaleggianti volute ormai oltre quarant'anni fa dall'allora leader Deng Xiaoping, che aveva tra l'altro cercato di migliorare le performance dell'esecutivo marcando una chiara distinzione tra responsabilità di governo e di partito.
Il primo segnale in questo senso lo aveva dato lo stesso Xi durante il suo intervento davanti all'Assemblea nazionale del popolo, l'inutilmente affollato pseudoparlamento cinese che si riunisce una volta l'anno per ratificare le decisioni dei vertici dell'onnipotente partito unico: il presidente nell'occasione rieletto per la terza volta all'unanimità dai circa tremila delegati si era rivolto alle imprese private cinesi esortandole a «combattere al fianco del partito comunista». Ora, tra le varie novità annunciate per un rinnovo complessivo della burocrazia di Stato, l'istituzione di un inedito ente regolatore per supervisionare ampi segmenti del sistema finanziario cinese indica la volontà di accentuare il controllo centrale: obiettivo dichiarato è essere all'altezza di una sfida sempre più aperta con gli Stati Uniti. Che, come ha detto Xi usando toni insolitamente aggressivi verso Washington davanti ai delegati, puntano a «circondare, contenere e opprimere la Cina».
Solo due ministri su 26, però, sono stati cambiati. La regola seguita è priorità alla fedeltà assoluta a Xi, e più attenzione alla sicurezza (cioè al potere del PCC) che all'economia. Rimangono tra gli altri al loro posto il ministro delle Finanze Liu Kun (oltre al governatore della Banca Centrale Yi Gang) e il recentemente nominato Qin Gang agli Esteri. Significativa è anche la conferma di Chen Yixin a ministro della Sicurezza dello Stato: Chen era stato inviato a Wuhan nel 2020 per coordinare gli sforzi per gestire l'epidemia di Covid, e bisogna ricordare che nello scorso dicembre Xi aveva dovuto recedere da politiche di severissimo contenimento («Zero Covid») sotto la pressione di proteste popolari. Questo è un segnale di mantenimento del controllo del potere centrale sulla società.
Il nuovo nome davvero interessante è quello ai vertici della Difesa, dove viene installato Li Shangfu, un generale specializzato nel settore aerospaziale che già dal 2018 è sotto sanzioni americane che gli impediscono di utilizzare i servizi del sistema finanziario Usa e di viaggiare negli States per aver approvato l'acquisto di sistemi missilistici antiaerei dalla Russia: un chiaro segnale di sfida a Washington.
Li Qiang ha indicato anche quattro nuovi vicepremier: tra loro spiccano Ding Xuexiang, vicinissimo a Xi e l'unico a sedere anche nel Comitato ristretto del Pcc, vero cuore del potere a Pechino, e Liu Guozhong, già capo del partito nella provincia di Shaanxi da cui Xi Jinping proviene. Tecnocrati che hanno costruito le loro carriere nelle aziende di Stato, e non è un caso: in Cina non è più l'ora del privato.
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