Governo fra Sudamerica e sinistra anni Settanta

Un mix di calcoli elettorali, ideologia e incompetenza Sono le idee anti recessione dei ministri giallo-verdi

Governo fra Sudamerica e sinistra anni Settanta

Troppo facile prendersela con Danilo Toninelli. Le gaffe del ministro delle Infrastrutture, impreziosite dal suo aspetto eternamente trasognato, sfiorano a volte il surreale. Ma quando si parla di economia l’assicuratore cremasco è solo una voce tra tante. E, anzi, tra i suoi compagni di partito c’è chi non viene valorizzato a sufficienza.

Come Piernicola Pedicini, non certo l’ultimo arrivato tra gli europarlamentari vista la laurea in fisica e l’incarico di dirigente dell’ospedale di Rionero in Vulture: in un recente dibattito nell’aula di Bruxelles ha inchiodato il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, chiedendogli senza mezzi termini di «azzerare il meccanismo dello spread che distrugge l’economia di Stati membri come l’Italia». Su internet gli hanno scritto di tutto: «Lo farà quando tu azzererai i tumori o le stagioni», diceva un commento. Ma la richiesta, che azzera, questo sì, qualche decennio di accordi europei riscrivendo a tavolino le regole di funzionamento dei mercati, è un buon esempio di pensiero economico grillino.

Il termine pensiero suona forse fuorviante, nel senso che non c’è, dalle parti dei Cinque stelle, nulla che appaia sul tema coerente o sistematico. Suggestioni, piuttosto. Con evidenti venature di chavismo sudamericano e parecchia nostalgia per alcune rivendicazioni della sinistra anni ’70. Il tutto condito con una sostanziale estraneità ai temi economici. La ricetta basta per fare da fondamento alla politiche del governo, visto l’atteggiamento della Lega. Il partito di Matteo Salvini da un lato punta le sue carte sulle politiche identitarie e anti-immigrati, limitandosi spesso a guardare da lontano i provvedimenti per la crescita; dall’altro, almeno in qualche caso, sembra condividere e contribuire a diffondere una sorta di pensiero magico para-economico.

LA STAFFETTA NON C’È

Di marca soprattutto salviniana è il concetto di «staffetta generazionale» usato per giustificare Quota 100. L’assunto di base è semplice: più anziani andranno in pensione, più posti di lavoro ci saranno per i giovani. È implicito il fatto che si considera il numero degli occupati come un dato fisso, una sorta di club a numero chiuso. Peccato che non sia così. A suggerirlo non è solo l’esperienza spicciola (chi vuole la pensione opera spesso in settori in crisi, i nuovi posti si creano in comparti innovativi, il travaso tra i due mondi non c’è), ma soprattutto le statistiche e gli studi internazionali. I Paesi del Nord Europa in cui è più alto il numero di ultrasessantenni al lavoro (in pratica dove si va in pensione tardi) sono anche quelli in cui i giovani trovano più facilmente occupazione. In pratica il numero di posti di lavoro dipende dalle condizioni di efficienza dell’economia e non dall’età della pensione. Analisi specifiche sono state condotte sulle riforme che innalzavano le soglie pensionistiche in Austria e Gran Bretagna e dicono la stessa cosa. Anzi, una ricerca dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli arriva a sostenere che un aumento del numero dei pensionati, aumentando la spesa e alzando la tassazione sulla popolazione attiva, può tradursi in un aumento del costo del lavoro e quindi in un ostacolo alle assunzioni. I primi dati sull’applicazione di quota 100, con buona parte delle domande in arrivo dai disoccupati, che quindi non liberano alcun posto, sembra confermare le tesi degli economisti.

OBBIETTIVO CUCCAGNA

Ancora più centrale e condivisa da molti grillini e non pochi leghisti è la speranza salvifica in un ritorno alla sovranità monetaria. Con una nuova lira e abbandonato il vituperato euro il nostro Paese potrebbe tornare a battere moneta finanziandosi a tasso zero, senza dovere preoccuparsi degli investitori in titoli di Stato e dello spread. Si tornerebbe in pratica a quello che si faceva in Italia prima del 1981, anno del cosiddetto «divorzio» tra Tesoro e Banca d’Italia: lo Stato emette titoli pubblici che poi vengono comprati dalla banca centrale, che per pagare si limita a stampare soldi. Il costo è praticamente nullo grazie al cosiddetto «signoraggio». A prima vista è la quadratura del cerchio, una specie di Bengodi. Viene spontaneo chiedersi perché tutti i Paesi avanzati che dispongono della sovranità monetaria (l’affermazione non vale per quelli del Terzo mondo) siano molto restii a usare questo strumento, a prima vista così comodo. Per rispondere alla domanda basta ricordare il fenomeno più caratteristico dell’Italia di qualche decennio fa: l’inflazione. Se la moneta nel sistema aumenta più velocemente dell’offerta di beni e servizi, il suo valore reale non può che diminuire. Il risultato è solo l’aumento dei prezzi. E anche se raramente la si guarda in questa prospettiva, l’inflazione non è altro che una tassa nascosta che falcidia il potere d’acquisto dei consumatori. È una tassa ingiusta perchè c’è chi riesce a difendersi meglio (chi per esempio può indicizzare i propri redditi all’andamento del costo della vita) e chi può solo subire. Non solo. Vista l’incertezza che crea, l’inflazione è un potente fattore di destabilizzazione del sistema produttivo e alla lunga non risolve nemmeno il problema dei titoli di Stato. Chi compra i titoli prevede una perdita del valore reale dei soldi che gli verranno restituiti, quindi chiede rendimenti sempre più alti (il rendimento vero e proprio e la compensazione per la perdita di valore). Se le aspettative di aumento dei prezzi si alzano il rischio è che la situazione finisca fuori controllo e che alla fine ci si avviti in una spirale di iperinflazione.

CONSUMO QUINDI CRESCO

Tutti ragionamenti complicati sui quali i sovranisti dei diversi schieramenti preferiscono glissare. A motivare i loro comportamenti, soprattutto nella componente dei Cinque Stelle, è anche un altro elemento. «I grillini sono, come li chiamo io, "domandisti", sono una corrente degenerata del keynesianesimo» dice Riccardo Puglisi, docente di economia all’università di Pavia. I loro sforzi si sono concentrati, attraverso spesa pubblica e soprattutto reddito di cittadinanza, a distribuire soldi che sostengano i consumi (parte, appunto, della domanda di beni e servizi). «Hanno puntato sul deficit, totalmente dimentichi che un’economia cresce davvero se diventa più produttiva», aggiunge Puglisi. Ad accompagnare legge di bilancio e altri provvedimenti sono stati milioni di parole, ma poche e quasi sempre di circostanza sono state quelle dedicate ai fattori che ostacolano la crescita della produttività delle aziende (burocrazia, fisco, gap tecnologico e nel capitale umano). Su tutti questi fattori che hanno a che fare con la cosiddetta «offerta», nei fatti non si è mosso nulla. Il risultato, paradossale, è quello denunciato da Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario. La manovra giallo-verde, dice, potrebbe diventare il caso di scuola (da studiare un giorno sui libri, purtroppo a spese nostre) di «espansione recessiva»: il governo butta soldi nel sistema, il risultato, una contrazione dell’economia, è esattamente il contrario di quello voluto. «Di solito, un deficit fa crescere il Pil e l'austerità lo contrae, anche in paesi molto indebitati. L'Italia è un'eccezione», sostiene l’economista francese. Blanchard parte dal presupposto che l’iniezione di soldi legata a politiche come il reddito di cittadinanza dia tutti i frutti sperati dal governo. Purtroppo i buoni risultati sono destinati a essere «mangiati» dal peggioramento complessivo della situazione economica. Il rialzo dello spread, con le difficoltà sui canali di finanziamento delle banche hanno già provocato un rialzo dei tassi alla clientela che non può non riflettersi sull’andamento del Pil. A testimoniarlo le divergenti condizioni di accesso al credito illustrate nell’ultimo rapporto della Bce: avere un prestito è diventato più facile in tutta Europa, con una sola eccezione, ovviamente l’Italia.

I dati parlano ma è inutile pensare che il pensiero di Blanchard o le statistiche dell’odiata Bce possano fare breccia dalle parti dei due vicepremier. Quanto al presidente del Consiglio Conte il suo pur torrentizio curriculum non segnala alcun tipo di interesse, nemmeno il più breve tra corsi o soggiorni di studio, in campo economico.

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