A fissare le scadenze 2030 e 2035 non è stata la scienza, bensì la politica: anche italiana. I limiti alle emissioni e alle immatricolazioni delle auto ora ripensati, furono decisi a Parigi nel 2015 Italia compresa e le date, le scadenze, furono fissate da alcuni politici che posero agli scienziati una domanda specifica: che cosa servirebbe per tenere il cambiamento climatico sotto un obiettivo praticamente impossibile da raggiungere? Gli scienziati intergovernativi (Ipcc) nel 2018 risposero che non era realistico, ma che, per avvicinarsi, sarebbero serviti dei tagli "senza precedenti". Così, tra 2019 e 2021, la politica europea prese la risposta ipotetica degli scienziati e la trasformò in un obbligo legale con scadenza 2030 e 2035.
Prima delle responsabilità italiane impossibile è tacere di quelle dell'olandese Frans Timmermans, motore politico e ideologico del Green Deal che trasformò un'ipotesi scientifica (condizionata) in un vincolo che ignorava ogni fattibilità industriale: fu nominato da Ursula von der Leyen con poteri su energia, trasporti, industria e ambiente, non un tecnico ma un decisore. Il suo ruolo terminò nel 2023 quando decise di candidarsi alle elezioni olandesi peraltro con esiti disastrosi.
Passiamo all'acquiescenza della politica italiana. Il 12 dicembre 2015, a Parigi, l'Accordo sul clima fu firmato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi che rivendicò il ruolo italiano nella lotta climatica, parlando di "una svolta storica" e di "un accordo che cambia il mondo", senza porre condizioni su costi industriali o tempi di adattamento. Poi il governo guidato da Paolo Gentiloni, nel 2018, confermò integralmente la linea di Parigi e, da lì a poco, lo fece anche da commissario europeo all'Economia: sostenne che "la transizione verde non è un'opzione, ma una necessità".
Dal settembre 2019 ci pensò il governo Conte II a sostenere la svolta verde. Lui, Giuseppe Conte, parlò di "una straordinaria occasione di rilancio" e di "una sfida che l'Italia intende guidare": questo mentre il Partito democratico, allora forza centrale della maggioranza, rivendicò l'impostazione più ambiziosa possibile, e Nicola Zingaretti, in particolare, definì il Green Deal "la bussola dell'Europa", mentre Roberto Gualtieri, ministro dell'Economia, sostenne che i costi della transizione erano "investimenti inevitabili". Il Movimento 5 Stelle, con il guardiaboschi Sergio Costa al ministero dell'Ambiente, difese la traiettoria e parlò di "accelerazione necessaria", trattando ogni perplessità industriale come resistenza culturale.
Il passaggio decisivo avvenne il 10-11 dicembre 2020, quando il Consiglio europeo approvò il -55 per cento di emissioni entro il 2030. Al tavolo sedevano Giuseppe Conte per l'Italia, Angela Merkel, Emmanuel Macron e altri leader. L'Italia votò a favore senza riserve. Pochi mesi dopo, il 14 luglio 2021, la Commissione presentò il pacchetto che trasformò quella traiettoria in norme cogenti.
Al riscaldamento politico seguì l'era glaciale della realtà. Il dossier auto esplose, ma Elly Schlein, a Bruxelles, il 23 marzo 2023, ribadì che le scadenze dovevano essere rispettate e che i partiti di maggioranza "si sbagliano", ergo, come Pd, "noi continuiamo a sostenere le ambizioni della Commissione". Adolfo Urso, ministro del Made in Italy, definì invece le scadenze come "fuori dalla realtà" (15 settembre 2023) e sottolineò che "tempi e modi non coincidono con la realtà soprattutto italiana", anche perché il 20 per cento della produzione dipendeva dall'automotive.
Va dato atto sportivamente atto al piddino Enrico Letta, che in precedenza aveva sostenuto il Green Deal, che già lo scorso 29 aprile aveva definito "un grave errore" vietare i motori a combustione. E va dato giornalisticamente atto, ieri, che il quotidiano di riferimento dei grillini (Il Fatto Quotidiano) ha ignorato completamente la notizia della retromarcia.