Greganti, persino il compagno G vittima della giustizia senza pietà

L'ex dirigente Pci ha rischiato di morire in cella: operato d'urgenza al cuore dopo 25 giorni di attesa. Da Galan a Rizzoli, il triste elenco dei malati sbattuti in gattabuia

Greganti, persino il compagno G vittima della giustizia senza pietà

Venticinque giorni di attesa. Quasi un mese per avere dalla burocrazia carceraria l'ok ad un intervento chirurgico urgente. Primo Greganti, il mitico «compagno G», ha rischiato di morire in cella. Il cuore aveva tradito l'imprenditore arrestato ai tempi di Mani pulite e ora risucchiato nell'inchiesta Expo. Ma ci sono volute quasi quattro settimane - secondo il racconto di Repubblica - per spostare il detenuto al policlinico San Donato di Milano e riparare i guasti provocati dalla rottura della valvola mitralica. L'intervento, eseguito dal professor Lorenzo Menicanti, una celebrità, è perfettamente riuscito.

Questo periodo di tempo può sembrare perfino breve nell'Italia in cui un cittadino qualunque deve a volte pazientare mesi e mesi per sottoporsi a ad un'operazione della massima importanza, perché le liste d'attesa scavalcano le pagine del calendario. Ma, a dirla tutta, per quel che riguarda la cardiochirurgia, almeno al Nord, i tempi sono quasi azzerati.

Non è facile affrontare un tema del genere. Nella nostra testa abita un pregiudizio, un diavoletto perfido, che ci spinge sui tornanti di ragionamenti velenosi: tanti personaggi eccellenti quando hanno guai con la giustizia scoprono di essere malati, presentano pile di certificati medici, finiscono regolarmente in un reparto attrezzato come la succursale di un ospedale. «Com'è - disse al cronista un giorno uno dei capi delle Brigate rosse - che quando un borghese viene ammanettato finisce quasi sempre in infermeria?».

È vero, ed è difficile raccapezzarsi: qualche giorno fa Giancarlo Galan è stato protagonista di una vicenda rocambolesca: la mattina era in ospedale, a Este, per curare la gamba fratturata, al pomeriggio era a casa dopo essere stato dimesso con straordinario tempismo, la sera in cella a Opera, dopo il voto favorevole alla manette della Camera. Lui, al di là della consistenza dei capi d'imputazione, si è lamentato non una ma due volte. Per la precisione chirurgica con cui i medici l'hanno congedato proprio nel momento di massimo imbarazzo e perché, malandato com'era, non ha avuto la possibilità di andare a Montecitorio a spiegare le proprie ragioni. Inefficienze, rigidità del sistema, impuntature di matrice giustizialista possono provocare danni. L'anno scorso Angelo Rizzoli è sprofondato ancora una volta nel passato da cui era risalito faticosamente. L'hanno riarrestato, come tanti anni prima, ma il suo fisico era ormai minato: un catalogo di malattie. I domiciliari gli sono stati concessi dopo più di un mese e Rizzoli si è trascinato fra ricoveri, perizie sulle condizioni di salute, interrogatori. A dicembre il produttore cinematografico è morto e così chi pensava a una messinscena è stato servito.

Si tratta spesso di situazioni spinose e però il diritto alla salute e un briciolo di pietà non dovrebbero mai venire meno. Surreale, ad esempio, è la vicenda di Bernardo Provenzano, l'ex numero uno di Cosa nostra. Stiamo parlando di un boss di prima grandezza, di una figura storica della mafia, di un criminale dal curriculum spaventoso. Ma il Provenzano di oggi a quanto pare è un vegetale o poco più. Biascica, forse, qualche parola incomprensibile, non può essere spostato dal letto, è un relitto. E però questo fantasma è ancora sottoposto al regime duro: il 41 bis. E tutti i tentativi di far togliere l'ormai inutile apparato poliziesco sono naufragati. Almeno fino a ora. Il Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sostiene che il padrino reagisce ad intermittenza.

Insomma, ci sono ancora dei lampi nel vuoto della sua mente e questo giustifica gli agenti, le telecamere, il circuito di sorveglianza. Fra l'altro costosissimo. Il tribunale di Roma ha rinviato la pratica al 3 ottobre prossimo. Provenzano resta al 41 bis. Il simbolo, perché dell'uomo rimane ben poco.

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