Roma - C'era una volta il partito degli slogan granitici, degli imperativi assoluti e delle regole senza deroghe. Il movimento dei «vaffa», del «io voto onesto», di «uno vale uno», del «Mai in tv», della «trasparenza andrà di moda».
Molta acqua è trascorsa sotto i ponti, il Movimento 5Stelle ha finito per comportarsi come un battello che va a sbattere contro scogli da lui stesso disseminati, ha fatto i conti con la dura realtà, con l'eterogeneità degli eletti, con la difficoltà di controllare cittadini-portavoce alla prova della disciplina parlamentare e delle tentazioni offerte da redditi personali improvvisamente aumentati in maniera esponenziale rispetto alla loro vita precedente.
Il corto circuito verificatosi con gli elastici criteri adottati per il sindaco di Parma Pizzarotti - indagato per abuso di ufficio e sospeso - e per quello di Livorno Nogarin - indagato per bancarotta e difeso dal Movimento - non è altro che un effetto collaterale del faticoso salto di qualità che implica il governo della cosa pubblica. E così dopo aver cancellato ogni traccia del principio giuridico della presunzione di innocenza, ora l'arbitro è costretto a seguire criteri arbitrari.
Non è la prima volta che le regole vengono corrette in corsa. Nel 2013 lo slogan «uno vale uno» era diventato la bussola per guidare gli eletti fuori dal labirinto dell'ambizione e impedire che «il mandato che i cittadini gli hanno donato» potesse diventare «solo un altro gradino verso la loro affermazione personale». Nei comizi Beppe Grillo sosteneva che anche una casalinga di Voghera avrebbe potuto fare il ministro del Tesoro. «Perché la casalinga di Voghera non ruba e bada alla famiglia». Ma quella regola ha prodotto un tale caos nella gestione del dissenso interno che Grillo e Casaleggio hanno deciso una decisa correzione di rotta. Una sterzata che ha portato nel novembre 2014 alla creazione del Direttorio, soluzione non troppo diversa da quanto avrebbero potuto mettere in campo un Pd, un Ncd o una Sel qualsiasi.
Sono lontani anche i tempi del «Mai in tv». «Se il Movimento 5 Stelle avesse scelto la televisione per affermarsi, oggi sarebbe allo zero qualcosa per cento. Partecipare ai talk show fa perdere voti», diceva Grillo. Una regola la cui violazione poteva portare all'espulsione, come ben sa Federica Salsi. Anche in questo caso il diktat di inizio legislatura si è ammorbidito, si è passati alla «presenza per competenze»; al «sì al confronto, no al pollaio», fino alla presenza costante e capillare di adesso.
Se non tra gli slogan, tra le parole di martellante conio grillino tra uno «zombie», un «non partito», un «PDL e PDsenzaelle», compariva il mitico streaming. Oggi è quasi dimenticato, ma quante discussioni si sono tenute su questo totem della trasparenza, lo strumento perfetto per svelare il volto nascosto della politica, i suoi scheletri e le sue miserie. Si è passati dagli errori compiuti nella scelta delle delegazioni per le consultazioni del mai nato governo Bersani e del governo Letta per approdare al «duello» Grillo-Renzi, trasformatosi in un boomerang. Da allora in poi la febbre dello streaming si è affievolita e le infuocate riunioni dei gruppi si sono tenute al riparo dalle telecamere.
Nel tempo si è ammorbidita anche l'ispirazione francescana degli eletti (come si può verificare sul comunque meritorio sito tirendiconto.it, le spese romane di deputati e senatori M5S, secondo il Foglio, sarebbero aumentate del 25% nel giro di due anni).
Così come non è più stato molto citato il famoso «politometro» proposto da Grillo per «paragonare redditi e patrimonio dei politici al momento in cui entravano in politica con i redditi durante e dopo l'attività politica». Misuratore che sarebbe interessante applicare a fine legislatura a redditi e patrimoni degli eletti grillini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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