La fredda statistica delle azioni condotte dalla polizia di Hong Kong racconta meglio di tante parole, in fondo ripetitive fino al punto di annoiare, il punto di apparente non ritorno che sta raggiungendo la repressione della rivolta anticinese nella ex colonia britannica passata sotto la sovranità del Grande Fratello rosso di Pechino. Persone arrestate soltanto lunedì: 1.100. Di queste, studenti che si sono consegnati alla polizia uscendo dal Politecnico assediato: 600. Minorenni tra gli studenti arrestati: 200. Numero degli studenti che ancora resistono all'interno dell'università: circa 100. Raffiche di gas lacrimogeni sparate dalla polizia: 1.458. Proiettili di gomma sparati sempre dalla polizia: 1.391. Ricorso ad «altre armi antisommossa», tra cui cannoni caricati con liquido azzurro per identificare le persone colpite: centinaia di volte, secondo la stessa polizia. Numero di bottiglie molotov rinvenute all'interno della Chinese University: 3.900 per la polizia, 8.000 secondo il South China Morning Post, che cita una fonte anonima. Cifre definite scioccanti dalla governatrice filocinese di Hong Kong, Carrie Lam, che ha denunciato l'esistenza di una «fabbrica di armi».
La resistenza degli studenti, idealisti democratici che rifiutano la logica del progressivo e subdolo assorbimento di Hong Kong nel sistema nazionale della Cina comunista e che sono passati in parte all'uso della violenza per rabbiosa frustrazione, sembra allo stremo. Questo non significa che, una volta caduto il loro simbolico bastione, cesseranno le proteste. Ma è certo che le autorità di Hong Kong, che eseguono gli ordini sempre più perentori di Pechino, si impegneranno «con ogni mezzo» come ha promesso la detestata Lam per impedire quelli che vengono definiti «attacchi alla stabilità di Hong Kong». Tenendo sempre pronta l'arma di riserva: il ricorso all'esercito cinese.
Questo il quadro della situazione sul terreno. Ma nonostante i numeri e le notizie di scontri ancora in corso in città raccontino di una battaglia fisica, il vero confronto che si combatte a Hong Kong è politico. E può essere riassunto in un titolo da film: Joshua Wong contro Pechino. E questo perché il 23enne leader di fatto della rivolta anticinese studentesca e non solo si è coraggiosamente assunto il ruolo di testimone nel mondo della sua causa. Da mesi si rivolge all'Occidente per chiedere un sostegno politico e morale che arriva solo a parole, misurato col contagocce: troppo prioritario viene considerato il ricchissimo mercato cinese per andar oltre dichiarazioni di principio. In questi giorni Wong sarebbe dovuto partire per l'Europa (Italia compresa), dove era atteso per una serie di incontri pubblici. Ma l'Alta Corte, dopo che gli era stato negato il diritto di candidarsi alle elezioni locali, ha stabilito che non potrà lasciare Hong Kong: troppo alto sarebbe il rischio di una sua fuga, deve essere processato per manifestazione illegale.
Wong difende il diritto degli studenti a usare la forza «per difendersi dai soprusi della polizia», mentre il governo di Pechino esprime indignazione verso «i due pesi e due misure» che userebbe l'Occidente: quale vostro governo, è la tesi, tollererebbe senza reagire il livello di violenza usato dai dimostranti a Hong Kong? È un piccolo capolavoro di ipocrisia, considerato l'assai maggiore livello di violenza che il potere comunista impiega contro chiunque osi dissentire in patria, dal premio Nobel Liu Xiaobo in giù. Ed è triste che molti benpensanti occidentali ci caschino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.