I 75 anni di Bossi, il leone del Nord dalle crociate padane ai siluri a Salvini

È il fondatore-contestatore, ma tutti sorvolano: se non c'era lui...

I 75 anni di Bossi, il leone del Nord dalle crociate padane ai siluri a Salvini

Milano Settantacinque anni, un trentennio di politica tra ampolle, secessioni e governi, di mezzo una botta micidiale che l'ha quasi fatto fuori e un'inchiesta che ha travolto la sua famiglia, ma Umberto Bossi è ancora lì, a urlare «Padania libera» a Pontida, a contestare la linea del segretario federale («la Lega è nata per liberare il Nord oppresso dal centralismo italiano, il resto sono chiacchiere»), a fumare il toscano nel cortile di Montecitorio, forse a vagheggiare un impossibile ritorno in auge. Per il vecchio leone del Nord questi ultimi sono compleanni un po' amari, mentre negli anni d'oro del potere c'era la fila per riverirlo e omaggiarlo e ancora nel 2010 Telepadania lo celebrava mandando in onda il videoclip Buon compleanno capo, ora Bossi spegne le candeline nella casa di Gemonio rimuginando sul passato tra nostalgie e recriminazioni («Mi hanno tradito»).

Per i 75 anni del vecchio Umberto qualcosa però si muove, i deputati gli hanno preparato un brindisi a Roma, mentre Tremonti - il suo ministro dell'Economia preferito - stasera gli ha organizzato una cena. In via Bellerio è sopportato come l'anziano brontolone che abbaia alla luna, ma siccome è Bossi bisogna avere pazienza e lasciar correre: «Mi dice che non capisco un c... ma che devo fare? Lo abbraccio e vado avanti» abbozza Salvini che gli ha fatto gli auguri un giorno in anticipo, perché «senza Umberto Bossi non esisterebbe nulla di tutto ciò». Il debito gli è riconosciuto, anche se si ostina a non starsene zitto: «È il compleanno di Bossi, gli ho fatto gli auguri, lui è la nostra storia, senza di lui non saremmo qua» scrive Maroni, che lo conosce bene, fin dagli inizi di quella storia picaresca, a tratti funambolica, da cui nasce la Lega Lombarda con atto ufficiale nel 1984, prendendo ispirazione dall'«Unione Valdôtaine» di Bruno Salvadori da cui eredita le idee ma pure i debiti («Lui si vanta di averli pagati lui, io so che li ho pagati io» raccontò Maroni). Prima Bossi aveva fatto di tutto: il muratore, l'addetto in una lavanderia, il cantante (ha pure inciso un 45 giri), il dipendente dell'Aci, lo scaricatore di frutta e verdura, l'assistente alla camera operatoria in un ospedale, lo studente di Medicina all'Università di Pavia senza mai finirla, eterno fuoricorso («Oh, stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza mai essersi laureato» dirà di lui il cognato Pierangelo Brivio»). Politicamente era stato di sinistra, ma in modo confuso (dal gruppo comunista del Manifesto al Pdup ai Verdi), finché non ha l'intuizione che gli cambia la vita: fondare un partito che abbia come programma «la trasformazione dello Stato italiano in un confederazione di regioni autonome», come si legge nel programma della primissima Lega Lombarda. La propaganda, fatta artigianalmente con la Renault 4 del cognato e i manifesti attaccati a mano, è inizialmente grezza ma per scelta: «Decidemmo di sfruttare l'antimeridionalismo diffuso in Lombardia, con un taglio un po' rozzo delle parole d'ordine sia per far scandalo sia per gettare fumo negli occhi dei partiti romani che ci presero per una combriccola di bontemponi e tardarono ad alzare la guardia» raccontò poi lo stesso Bossi. Il messaggio sarà pure rozzo ma sfonda alla grande, dopo solo tre anni dopo è giá «Senatùr» (mentre al suo paese si era guadagnato un altro soprannome, il mantegnù, «quello lì ha passato la vita a farsi mantenere» dirà la sorella Angela). Scrive l'Ansa del giugno '87: «Umberto Bossi, 46 anni, varesino, ex ricercatore all'Università di Pavia (sic), è il primo senatore della Lega Lombarda». Nel '90 la Lega è già il quarto partito italiano, di lì a poco conquisterà Milano con Formentini, e il governo di Roma con Berlusconi nel '94, fatto cadere col «ribaltone», poi ancora nel 2001 e nel 2008, dopo la malattia, l'inizio del tramonto bossiano.

Il colpo di grazia sono le inchieste sulla «Family» e i soldi del Carroccio, secondo lui manovrate dai nemici interni al Viminale, che lo portano alle dimissioni da segretario e all'emarginazione nel partito. Resta il «presidente federale», il rompiballe che alla Lega tocca sopportare,« perché se non c'era lui...».

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