Orbán e i frutti della strategia attendista

La sua ambiguità strategica, che lo ha reso economicamente dipendente da Mosca e Pechino, oggi si trasforma in un asset diplomatico

Orbán e i frutti della strategia attendista
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Tra i leader europei che hanno raggiunto Washington, con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il segretario generale Nato Mark Rutte, per sostenere Volodymyr Zelensky nell'incontro con Donald Trump spiccava un'assenza significativa: quella di Donald Tusk, primo ministro della Polonia, potenza regionale dell'Europa centro-orientale che ha giocato un ruolo fondamentale nella crisi ucraina.

L'esclusione di Varsavia da questo tavolo diplomatico di primo piano sta provocando onde d'urto nella politica interna e negli equilibri geopolitici dell'area, e può ridisegnare rapporti di forza e influenze che sembravano consolidati.

La Polonia, che pure ha sostenuto Kiev con una generosità senza pari accogliendo oltre due milioni di profughi e fornendo armamenti pesanti si trova improvvisamente ai margini dei negoziati più importanti. Il ministero degli Esteri Radoslaw Sikorski ha tentato di minimizzare, definendo il proprio Paese "di medie dimensioni" e quindi naturalmente escluso da certi vertici. Ma è una spiegazione che convince poco, considerando la presenza del presidente finlandese Alexander Stubb e il peso specifico della Polonia nel sostegno all'Ucraina, superiore persino a quello tedesco in molti settori.

L'assenza polacca ha scatenato una violenta battaglia politica interna tra il governo liberale di Tusk e l'opposizione conservatrice. Entrambi gli schieramenti si accusano reciprocamente di aver tradito gli interessi nazionali, rivelando quanto sia profonda la spaccatura che attraversa il Paese proprio quando servirebbe unità d'intenti. Da un lato si sostiene che il nuovo presidente della Repubblica Karol Nawrocki, in carica da pochi giorni, avrebbe contribuito al disastro diplomatico con una telefonata a Trump giudicata controproducente, invitandolo a diffidare di Putin anziché mostrarsi aperto al compromesso. Un approccio che avrebbe chiuso definitivamente le porte di Washington alla delegazione polacca. Dall'altro si rinfacciano gli screzi di Tusk e Sikorski con l'amministrazione Trump.

In questo scenario di debolezza varsaviana emerge invece paradossalmente la figura di Viktor Orbán, primo ministro ungherese da sempre considerato il "cavallo di Troia" di Putin nell'Unione Europea. La sua ambiguità strategica, che lo ha reso economicamente dipendente da Mosca e Pechino, oggi si trasforma in un asset diplomatico. Budapest si candida infatti come possibile sede per un futuro vertice diretto tra Zelensky e Putin, sfruttando proprio quella posizione equidistante che in passato aveva fatto storcere il naso ai partner europei.

Orbán ha saputo trasformare la presidenza ungherese del Consiglio dell'Ue del 2024 in una piattaforma per presentarsi come grande mediatore di pace, costruendo un profilo che oggi risulta appetibile per facilitare negoziati altrimenti impraticabili. La sua capacità di dialogare con tutti gli attori in campo da Trump a Putin, da Xi Jinping agli europei lo posiziona come facilitatore naturale in una fase in cui serve chi possa parlare a tutti. La Polonia paga invece il prezzo delle sue divisioni interne, sprecando l'opportunità offerta dalla presidenza di turno dell'Ue nel 2025 per consolidare il proprio ruolo di potenza regionale affidabile e filo-ucraina. I giochi di palazzo tra Tusk e l'opposizione hanno prevalso sulla definizione di una strategia estera coerente. Sono sviluppi che possono ridisegnare in profondità la mappa dell'influenza nell'Europa centro-orientale.

Il paradosso è evidente: mentre Varsavia ha pagato il prezzo più alto nel sostegno a Kiev, Budapest rischia di raccogliere i frutti di una strategia attendista che oggi la pone al centro dei possibili negoziati di pace. Una lezione sui meccanismi talvolta brutali della diplomazia internazionale.

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