I parà caduti e la guerra dei genitori per la verità

I figli sono morti in Afghanistan, ma troppi aspetti della loro fine restano ancora nell'ombra

Chiara Giannini

«La verità e la giustizia sono lente, ma inesorabili e prima o poi arrivano. Nessun dorma, ci meritiamo di sapere»: sta racchiuso nelle parole di Anna Rita Lo Mastro, madre del caporal maggiore David Tobini, parà della Folgore caduto a Bala Mourghab il 25 luglio 2011, il senso della battaglia dei parenti dei 53 caduti militari dell'Afghanistan, che da anni stanno lottando per sapere come siano davvero morti i loro congiunti.

Alcune delle dinamiche riportate dalla Difesa negli anni in cui quella terra ha mietuto il numero maggiore di vittime, per lo più tra il 2008 e il 2012, infatti, sembrano non tornare. Il primo caso a essere riaperto è quello del caporal maggiore dell'Esercito Francesco Saverio Positano, originario di Foggia, caduto a Shindand il 23 giugno 2010. Il giovane perse la vita, secondo quello che fu riferito, cadendo da un blindato. In realtà le perizie fatte fare dai genitori Rosa e Gino, nel corso degli anni, dimostrano una verità diversa. La lunga scia di sangue sotto al Buffalo, il mezzo su cui viaggiava, non lascerebbe spazio a interpretazioni. Francesco sarebbe morto schiacciato a causa della retromarcia di quel blindato, che avrebbe impattato con il retrostante. Si tratterebbe di uno sbaglio, mai ammesso dai militari che si trovavano sul convoglio su cui si trovava anche Positano. Ora sei di quei soldati rischiano di finire sotto processo, per aver fornito false informazioni al pm. Avrebbero deciso a tavolino cosa dire, forse coperti da qualcuno. Oltre a loro altri due commilitoni, quelli che erano materialmente alla guida dei mezzi, potrebbero essere ascoltati quali responsabili della tragedia dal giudice Erminio Amelio, che ora chiede per loro il rinvio a giudizio per omicidio colposo.

Una battaglia lunga quasi nove anni per due genitori che non vivono più, ma che con coraggio indicibile non si sono mai arresi. «La giustizia deve fare il suo corso - spiega mamma Rosa - perché ci hanno presi in giro per anni. Mio figlio è morto e nessuno me lo ridarà indietro, ma la verità la vogliamo, perché non sarà una consolazione, ma almeno ci consentirà di farlo riposare in pace. In troppi hanno taciuto, in troppi hanno nascosto la testa sotto la sabbia, scansandoci, scappando davanti a due genitori che non chiedevano che di sapere come era morto il loro figlio. Ne abbiamo diritto».

Il Buffalo, infatti, avrebbe dovuto essere spento prima che fosse consentito a Francesco di scendere.

E ora anche tutte le altre famiglie si stanno accodando. Chiedono di riaprire i casi, di sapere quella verità che per troppi anni è rimasta nascosta.

«Chiediamo solo - spiega Dora Di Lisio, mamma del primo Caporal maggiore Alessandro Di Lisio, caduto nel 2009 a 50 chilometri a nord est di Farah - che se qualcuno ha fatto carriera sulle vite dei nostri figli, sia messo di fronte alle proprie responsabilità. Noi abbiamo chiesto, attraverso il nostro avvocato, l'accesso agli atti. Ma per adesso tutto è chiuso in un silenzio tombale. Nessuno risponde. Vogliamo solo sapere come è morto nostro figlio». Mancate risposte che sono disarmanti per gente che ha sofferto abbastanza, oltre che un segnale a dir poco vergognoso.

«Centosei mesi senza di te - scrive Angelo Pascazio, padre di Luigi, morto nove anni fa nella terra degli aquiloni -. Un bacio perché mi manchi.

Ditemi, non avete potuto o non avete voluto? Spiegatelo alla gente, spiegatelo a quelle madri o quei padri, a quelle sorelle o fratelli o quelle mogli a cui non è più permesso vivere. Dite la verità e io vi spiegherò come si riesce a sopravvivere».

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