«Una volta che una simile quantità di persone si è radunata, che sono riuscite ad arrivare sull'obiettivo, io mi guarderei bene dall'intervenire con la forza: perché va a finire che ci scappa il morto. Il problema è intervenire prima, evitare che si riescano a radunare. Ma direi che il problema è ancora più a monte: bisogna decidere se in Italia questi raduni sono ammessi o non lo sono, stabilire qual è il messaggio che vogliamo mandare all'esterno, e deve essere un messaggio chiaro. Questa cosa o se po' fa'" o nun se po' fa'". Io sarò miope ma quale sia la linea ancora non l'ho capito».
Achille Serra, ottant'anni compiuti da pochi giorni, la trincea dell'ordine pubblico l'ha vissuta in tutti i ruoli possibili: capo della Digos, questore, prefetto. E davanti a quanto accaduto al rave di Torino («senza giudicare né dare consigli, eh») indica quali sono i punti chiave: avere una linea chiara, e sapere in anticipo quanto sta per accadere. «Dopodiché, se hai deciso che queste cose non si fanno, occupi militarmente la zona».
Però bisogna cogliere i preparativi, avere le antenne giuste.
«Io mi rifiuto assolutamente di credere che seimila persone possano organizzare una calata su Torino senza che nessuno se ne accorga. Altrimenti i servizi di intelligence che ci stanno a fare? Il contributo dei servizi è da sempre fondamentale per monitorare questi mondi e per potersi muovere in anticipo. L'organizzazione di un evento che mobilita migliaia di persone è tecnicamente impossibile che passi inosservata. A quel punto si inizia il dialogo, che è comunque la strada obbligata».
Ma con chi si tratta, come si sceglie un interlocutore?
«Queste manifestazioni hanno sempre uno o più organizzatori. È con loro che ci si rapporta, allacciare i contatti per chi fa il nostro mestiere non è certo un problema: però prima devi avere una linea. Puoi dirgli okay, va bene, la cosa si può fare, trattiamo sui dettagli: il volume della musica, le misure di sicurezza, eccetera. Oppure puoi dirgli: ragazzi niente da fare, tornate indietro, perché se arrivate ci trovate lì ad aspettarvi».
Alla fine, se tutto va male, a chi tocca dare l'ordine di attaccare?
«La responsabilità tocca al prefetto. Ma non è certo lui a dover decidere la bussola da seguire, a stabilire cosa è ammesso e ciò che non lo è. Il vero problema è l'assenza di confini certi».
Ma come si fa a trattare con questi soggetti?
«Il dialogo è sempre possibile. Per il social forum di Firenze del 2002 trattammo per mesi con chiunque, dai portuali della Cgil agli antagonisti, stabilimmo insieme a loro dove la polizia doveva farsi vedere e dove era meglio che stessimo in disparte. A Milano per lo sgombero del Leoncavallo, che pochi mesi prima era finito con lunghi scontri, decidemmo in anticipo con gli occupanti addirittura le modalità di contatto, loro si sdraiavano per terra e noi li portavamo via di peso. E nessuno si fece male. Ma deve avvenire tutto prima. Una volta che li hai davanti, magari mezzi ubriachi, e che iniziano gli scontri, a quel punto il dialogo è impossibile».
Le è mai capitato di perdere una battaglia di piazza?
«Mai.
Neanche quando gli autonomi occuparono la Statale di Milano: ero accanto al vicequestore Vittoria, lui era ferito a una mano e a una gamba, la situazione sembrava disperata ma lui disse: vi sniderò, per Dio. E così accadde. Le forze dell'ordine non possono perdere».
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