Le imprese da fantascienza che ci portano su Marte

Le piccole aziende preparano lo sbarco: progetti hi-tech per coltivare pomodori e costruire case

Le imprese da fantascienza che ci portano su Marte

C'è un'Italia di un altro Pianeta. E non si sa bene se sia quella che va su Marte gli imprenditori che sono avanti anni luce nel trovare soluzioni pazzesche per la nuova frontiera spaziale oppure quella marziana che tira il freno a mano della ricerca e finanzia solo i grandi legati al potere politico, trascurando le piccole e medie imprese che vivono di genio, spirito d'avventura e aiuti spesso stranieri; è ancora l'Italia di Galileo contro quella dello status quo, di Sua eccellenza il Made in Italy contro quella delle Loro eccellenze d'apparato. «La nostra situazione è da Comma 22», dice un manager italiano arruolato dal colosso americano Northrop Grumman Aerospace Systems, «se nessuno ti dice che puoi avere un ruolo nello Spazio non lo cercherai mai, ma se non lo cerchi non saprai mai se hai un ruolo nello Spazio. Le grandi aziende spaziali italiane sono competitive e danno certamente prestigio al Paese, ma senza il sostegno alle Pmi l'Italia rischia di perdere il razzo per il futuro. Quando andremo sugli altri pianeti avremo bisogno di tutti i servizi che abbiamo a Terra e l'Italia ha il talento e le soluzioni per essere protagonista».

La via italiana delle Pmi verso Marte parte da esperienze estreme sulla Terra. Come la Dainese di Vicenza che con i suoi brevetti sulla sicurezza nel mondo della moto e di tecnologia applicata al rischio sportivo ha staccato il biglietto per lo spazio. «Proteggere l'essere umano in ogni circostanza» è lo slogan del nuovo amministratore delegato Cristiano Silei: «La sicurezza è la nuova frontiera, qui come su Marte. Così siamo diventati promotori e non solo produttori». L'avanguardia in pista ha pagato: Valentino Rossi una cavia extraterrestre. Le innovazioni nelle tute dei motociclisti tipo la gobba aerodinamica paraschiena e le sotto-tute con airbag totale che s'innesca in 20 centesimi di secondo ha spinto Mit di Boston e Nasa a scegliere la Dainese per studiare il prototipo della tuta spaziale in vista della spedizione Marte 2030. «Abbiamo creato il BioSuit, che è stato anche esposto alla Biennale di Venezia. L'esigenza era quella di creare una pressione artificiale e compensare il vuoto cosmico» dice Silei. Con l'Ente spaziale europeo e il Kings College di Londra la Dainese ha invece lavorato allo Skin-Suit, una sorta di «mutanda spaziale» che riduce gli effetti dell'assenza di gravità sul corpo umano, un incubo per gli astronauti di rientro dalle lunghe missioni (e quella sul Pianeta Rosso potrebbe durare anche tre anni): la colonna vertebrale si allunga, i muscoli si atrofizzano, le ossa si decalcificano... «Abbiamo lavorato su esperienze già consolidate con materiali elastici ad uso sportivo, provocando una pressione crescente, attraverso circa 150 cuciture specifiche, dal collo ai piedi. Chiaro che non trascuriamo il lato estetico» dice Silei.

Dai marziani bisogna presentarsi eleganti. Ed autosufficienti. Una volta lassù per cercare la vita bisognerà pur vivere, mangiare e bere: il settore delle applicazioni e dei servizi in avvicinamento a Marte rappresenta un mercato globale di 123 miliardi di dollari. Smat, la società idrica torinese, forte di una raffica di attestati internazionali sulla qualità, dal 2008 fornisce acqua alla stazione spaziale internazionale, 15mila litri a 25mila euro al litro (che è per lo più il costo astronomico del vettore). «Riforniamo sia la Nasa che l'ente spaziale russo; gli americani chiedono un'acqua oligominerale trattata con sali di iodio, mentre la Russia la vuole mineralizzata, trattata con sali d'argento per mantenere la stabilità» dice l'ingegnere Paolo Romano, amministratore delegato di Smat. «Per Marte stiamo lavorando all'individuazione di un biocide per stabilizzare l'acqua per almeno tre anni e studiamo contenitori che non modifichino le caratteristiche chimico biologiche». Ma c'è chi pensa anche ai pomodori marziani. Come Silvio Rossignoli, presidente di Aero Sekur, azienda multiregionale con base ad Aprilia che punta su tessuti e aria: la lunga esperienza nella fornitura di paracaduti e divise non convenzionali per la Difesa, ma anche di galleggianti in caso d'ammaraggio per gli elicotteri impegnati sulle piattaforme off shore, ha aperto la via dell'immaginazione fino a farla atterrare su Marte: «Lo Spazio ha bisogno di aziende non spaziali» dice raccontando la sperimentazione di serre gonfiabili per la coltivazione di «food for space». «Sono certo che i primi astronauti su Marte mangeranno pomodori italiani» dice. L'agrospazio parla italiano, ma Rossignoli ha dovuto allearsi con l'Agenzia spaziale tedesca per poter sperimentare nella loro base antartica. Oppure con l'università dell'Arizona dove l'équipe guidata da Roberto Furfaro lavora al programma Mars Lunar Green House: moduli per la produzione idroponica (senza acqua e terra) a ciclo chiuso in grado di fornire il 50 per cento delle calorie giornaliere agli astronauti, produrre biomassa e rigenerare ossigeno e acqua; e i San Marzano pare maturino bene. Ma la Aero Sekur ha già un ruolo operativo perché il primo atterraggio (in ottobre) di una sonda spaziale europea, ExoMars, avverrà con un paracadute progettato dai suoi 36 ingegneri italiani. Anche tutti i filtri per impedire contaminazioni terrestri (lo impone una convenzione Onu) sono una derivazione di quelli forniti da Aero Sekur all'esercito contro i rischi della guerra chimica e batteriologica. «Le commesse aumentano, dobbiamo continuare a investire nella ricerca, ma non abbiamo sostegno pubblico» sottolinea Rossignoli.

L'Italia punta tutto sui colossi soprattutto per ragioni strategiche e di diplomazia spaziale, ma poi scopriamo che nonostante i vettori europei Vega siano costruiti da Avio, la quota italiana di Arianespace è solo del 3,8 per cento. Le Pmi della space economy italiana si lamentano che il principale committente, Finmeccanica, ha inasprito le condizioni a molti fornitori. Ma lo spazio ha fame di pionieri, è una prateria che prima o poi avrà i suoi coloni. Alla Wasp di Ravenna una squadretta di artigiani e neolaureati - potrebbero aver trovato la soluzione per le abitazioni: con la stampante in 3D, inventata per l'autoproduzione in luoghi estremi con quel che si trova sul posto. «Produciamo case a chilometro zero.

Oggi lo facciamo nel deserto, domani potrebbe essere Marte, tra l'altro la nostra stampante si può contenere in un tubo, perfetta per essere lanciata» dice il fondatore Massimo Moretti. Anche la Nasa si è fatta sentire. «Ma non abbiamo nessun finanziamento, siamo fuori dai circuiti e dalle lobby che fanno girare i soldi. Eppure lassù c'è tanto spazio...».

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