Cronache

Inchieste inutili e grandi flop: la prescrizione salva gli atenei

Anni di scandali, docenti nei guai e sconcerto generale Risultato? Molte archiviazioni per scadenza dei termini

Inchieste inutili e grandi flop: la prescrizione salva gli atenei

P arentopoli? Universitopoli? La vera vergogna si chiama Prescrizionopoli. Le tante inchieste sugli scandali scoperchiati negli ultimi quindici anni negli atenei italiani si sono quasi sempre risolte in un nulla di fatto. Poche condanne e tante archiviazioni per lo scadere dei termini. Baroni avidi, giovani professori favoriti a scapito di colleghi forse più meritevoli, figli, amici di figli, figli di amici favoriti in esami, lauree, concorsi per dottorati e cattedre. Tutti ancora al loro posto. Oppure se altrove per scelta e non perché il sistema giudiziario abbia preteso da loro che pagassero per la loro protervia.

Università di Bari. Nel 2004 viene arrestato Paolo Rizzon, primario di Cardiologia al locale policlinico, con l'accusa di aver truccato alcuni concorsi, uno dei quali per garantire al figlio Brian Peter un posto da ricercatore bandito dall'università di Foggia. Il pm chiede sette anni e mezzo per il papà, quattro per il figlio. Nell'ottobre 2016 il processo si conclude con il non luogo a procedere per il reato di associazione per delinquere perché prescritto. La contestazione di concussione viene riqualificata in abuso d'ufficio e induzione indebita, reati non più perseguibili. «Salvo» anche Brian Peter, accusato di concussione e falso. Il 3 ottobre 2013 erano stati assolti tre imputati che si erano sfilati dal rito ordinario chiedendo il rito abbreviato. Si tratta di Marco Matteo Ciccone, Matteo Di Biase e Maria Vittoria Pitzalis, tutti accusati di associazione per delinquere, reato «estinto per prescrizione». Tanto tuonò che non cadde una goccia.

Nel 2014 sempre a Bari scoppia lo scandalo «Do ut des», il mercato delle cattedre di professori ordinari e associati di Diritto Ecclesiastico, Costituzionale e Pubblico comparato gestito negli anni precedenti dai baroni in diverse università italiane. Il primo filone vede 38 indagati per associazione per delinquere. Nella cosiddetta «cupola dei giuristi» ci sarebbe posto anche per Augusto Barbera, uno dei saggi chiamati proprio in quel periodo dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a riformare la Costituzione. Secondo l'accusa Barbera avrebbe favorito taluni candidati, tra cui Federico Pizzetti, figlio di Francesco, già Garante della Privacy. Il 5 agosto 2016 il pm chiede la chiusura dell'indagine per intervenuta prescrizione. Solo dopo il gip del Tribunale di Roma emette un decreto di archiviazione perché il fatto non sussiste.

A rischio prescrizione anche il processo che prende le mosse dall'inchiesta «110 e lode» alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Calabria di Cosenza. Una vicendaccia di esami passati e mai sostenuti e di statini contraffatti: grottesco il caso di uno studente che risultava aver sostenuto (e passato) sette esami in un solo giorno. Finiscono alla sbarra in 71, poi ci sono 14 archiviazioni e un patteggiamento. L'11 aprile 2017 vengono assolti perché il fatto non sussiste il professore Daniele Gambarara e il giornalista del TG1 Pino Nano, laureatosi nel dicembre 2004 in Filosofia. Gli altri imputati sono ancora in ballo e il tempo gioca a loro favore.

Nessuna conseguenza per Luigi Frati, rettore dell'università La Sapienza da Roma dal 2008 al 2014. Nella «sua» facoltà di Medicina lavorano la moglie Luciana Rita Angeletti, la figlia Paola e il figlio Giacomo che passa da professore associato a professore ordinario proprio pochi giorni prima che entri in vigore il ddl «antiparentopoli» Gelmini. Lui viene indagato per abuso d'ufficio ma le inchieste finiscono nel nulla. «Il merito - dice beffardo Frati - non ha nome né cognome». Nemmeno la giustizia.

E quando questa stessa giustizia si muove con celerità qualche condanna ci scappa. Come quella comminata lo scorso luglio a 11 dei 16 imputati accusati, a vario titolo, di aver truccato l'esame da avvocato svoltosi a Bari nel dicembre 2014. Tra i condannati l'ex funzionaria dell'Università di Bari Tina Laquale (32 mesi) e la figlia Innocenza Losito, funzionaria Adisu (42 mesi).

Eccezioni che confermano la regola: all'università imbrogliare conviene.

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