Quella indimenticabile gita in montagna metafora del percorso della nostra vita

Soavi racconta la meraviglia e le sorprese di una passeggiata quasi senza tempo

Quella indimenticabile gita in montagna metafora del percorso della nostra vita

Ho due figli grandi che vivono lontano e non mi telefonano mai. Soprattutto il maschio. La femmina ancore ancora. Ma lui, silenzio. Io soffro di questo. E anche se gli amici mi giurano che il suo è un modo assolutamente normale o tipico di comportarsi, la cosa non mi va giù. Non mi abbatto ma, spesso, guardo la moneta che ho in tasca e rifletto che, con mille lire, essi potrebbero dirmi ciao e poi riappendere.

Avevo trascorso un intero mese in montagna, il tempo non era stato particolarmente bello, ma una sera due amici incominciarono a parlare di una gita che avrei dovuto fare, una gita assolutamente meravigliosa per la quale bisognava stare via due giorni e una notte. Cos'era questa gita?

Dissero, anzi giurarono, che fosse la più bella del mondo e che una volta là si provava una sensazione di grande leggerezza, come se, dopo avere sofferto, l'animo potesse riprendere il suo peso normale, che è quello inesistente, ed equivale ad un soffio o a un respiro. Una leggerezza inavvertibile. Così dissero e questa è, per me, la sensazione pura e semplice della grazia.

Una certa mattina, o forse era ancora buio, presi una giacca a vento, un po' di denaro per l'albergo e la cena e partii, da solo, seguendo le chiarissime istruzioni sul foglietto che gli amici mi avevano dato. Sono anni che non mi alzo presto per camminare. È una sensazione talmente indimenticabile che mi auguro di riprovarla: soltanto in montagna si possono assaporare certe sensazioni, perché l'uomo è solo e il destino dell'uomo è esattamente quello: di essere solo e di camminare. Ci sono i profumi delle piante, il profumo sale anche dal sentiero perché calpestando sassi, muschio, aghi di pino, altri odori si sprigionano sotto i piedi ed è bellissimo sentire che i nostri piedi, calpestando il sentiero, provocano una specie di mosto profumato: la strada, in quel momento, era già immersa in una specie di tomba verde, di tunnel al di là del quale si intravvedevano i cambiamenti della natura. Oltre quel verde più fresco degli alberi di nocciolo, si apriva una gola con un piccolo ponte di legno, e, poco più in là, la prima pineta vera e propria. Dopo un'ora di marcia mi fermai, per controllare il foglietto con gli appunti, guardarmi attorno e tirare il fiato.

Da lì parte la salita vera e propria che dura un paio d'ore e come tutte le salite è uno strazio fino al momento in cui non si viene premiati dalla visione di quello che c'è al di là della pineta. Il prato. Un grande prato, anche lui in leggera salita, ma sul quale i piedi camminano come si cammina quando, arrivati a casa stremati, ci si spoglia in attesa di entrare nella vasca da bagno. Sono sensazioni ineguagliabili, e quel prato verde e tenero ma in leggera salita dava l'impressione, lui così lontano da casa, di essere alla giusta distanza fra ciò che lo spirito desidera e il compenso che effettivamente si ottiene dopo un certo sforzo. Intanto il giorno era spuntato da un pezzo, il sole alto, i rumori assenti e, voltandomi, non vedevo quasi più la valle dalla quale ero partito ma la sottile strada provinciale con le auto che, come ordinati dinky toys si muovevano in perfetto silenzio. Nessun clacson, nessuna imprecazione di gente che guidava sfiorava la mia mente, anzi: poiché, come disse il romanziere Henry James, «la mia pura mente non era sporcata da un'idea» mi sembrava che quelle auto laggiù nel fondovalle, non avessero persone a bordo, neppure un guidatore, ma andassero a loro piacere, per il puro piacere di andare e venire.

Il prato finì e incominciò una vegetazione di cespugli bassi su un falsopiano circondato da basse colline di cespugli, una stradina facile da percorrere in fondo alla quale incominciava una lunga discesa fra altri prati: una discesa, dicevano le istruzioni di viaggio, infinitamente più lunga di tutto ciò che avevo fatto, come se tutto il salire non fosse stato altro che la preparazione a quella discesa che ora si apriva per poi richiudersi verso improvvise gole e strozzature delle rocce che, di colpo, frenavano lo sguardo ormai abituato al paesaggio più aperto dei prati dai quali ero appena disceso. (...) È pomeriggio, tra poco il sole se ne andrà e dovrò scendere ancora molto prima di arrivare nel luogo dove passerò la notte. Ma il lago è irresistibile e il foglietto di istruzioni è soltanto un pezzo di carta. Piegato in quattro rientra nella tasca. È in luoghi come questi che il tempo sembra essersi fermato. In realtà la luce cammina e l'ombra alle spalle ci raggiungerà, ma gli esseri viventi, in questo caso i cavalli, sembrano avere la stessa età di questo paesaggio immutabile, il fatto che nessuno stia lì di guardia ai cavalli, selvaggi ma per nulla impauriti dalla mia presenza, mi ricorda le auto senza guidatori che avevo visto mentre salivo verso questo piccolo lago.

Incomincio a scendere attraverso altri prati in ombra e, poco prima di sera, arrivo in una valle dove c'è un piccolo albergo, una specie di chalet che mi ricorda l'infanzia quando, verso la fine di altre lunghissime passeggiate, il nostro gruppo arrivava nei paraggi di un albergo dove nessuno di noi entrava per timidezza. Nessuno di noi pensava di entrarvi per lavarsi le mani e vedere, finalmente, come fosse fatta quella casa un po' fatata fra le montagne dove signori di lusso andavano a stare d'estate o d'inverno. Ma quelli erano ricordi di tanti anni fa e la giovinezza mi ricordava cose dell'altro mondo. Entrai nello chalet. La padrona mi diede il benvenuto e mi portò nella stanza numero nove, quella che gli amici mi avevano suggerito di chiedere. E là rimasi, a luci spente, incollato alla finestra a guardare il sole tramontato verso altri paesaggi verdi e viola e quando sparì rimase un lungo chiarore sospeso nel cielo come di luce che non se ne va. Vidi in un lampo quello che mi restava da vivere come una fonte di energia solare. La luce riflessa sui vetri della mia stanzetta sembrava soufflé di una sfoglia commestibile del creato. Qualcuno bussò alla porta, dissero che la cena era pronta.

Adesso, nel ricordo, non potrei giurare di essere stato il solo ospite di quella stanza dove avrei mangiato ma tutto, in effetti, ere molto concentrato intorno a me; le pigne che bruciavano nel camino e il tepore che lambiva il mio viso e le gambe; il rumore meraviglioso che fa il legno mentre sta bruciando. Poi, mentre mi versavo da bere un po' di acqua e vino, un cameriere giovane e biondo mi portò un piatto di speck, bresaola e prosciutto e rimase a guardarmi mentre mangiavo avidamente. Tante che alzai gli occhi su di lui, visto che non se ne andava. Il cameriere era mio figlio.

Il ragazzo che viveva lontano da me e non dava sue notizie e mi costringeva, con il suo silenzio, a pensare che con mille lire avrebbe potuto chiamarmi e chiedermi come stavo, faceva il cameriere nel posto più bello del mondo, o nella giornata più straordinaria che mi fosse mai capitato di vivere.

7 agosto 1982

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