E se gli inglesi ci ripensassero? O se, viste le catastrofiche (e non da tutti previste) conseguenze della Brexit, ci avessero addirittura già ripensato e volessero riportare indietro di 48 ore l'orologio della storia e rimanere nella Ue? Non si tratta di fantapolitica, ma della realtà che emerge dalla immediata raccolta di circa due milioni di firme, che aumentano di ora in ora a ritmi vertiginosi, sotto una petizione per chiedere una legge che preveda la ripetizione dei referendum quando questi non raggiungono la partecipazione del 75% (domenica ha votato il 73,2) e almeno il 60% di sì (domenica sono stati il 51,9%). La norma prevede che le petizioni corredate da almeno centomila firme vengano prese in esame da una apposita commissione del Parlamento, che ha deciso di affrettare i tempi e affrontare il caso già martedì. Se la commissione desse parere favorevole, sulla proposta dovrebbero poi pronunciarsi i deputati in seduta plenaria. E poiché a Westminster la maggioranza contro la Brexit è schiacciante, ci sono buone possibilità che la legge venga approvata. Certo, si tratterebbe di un provvedimento retroattivo, che i vincitori del referendum potrebbero impugnare, ma poiché la Gran Bretagna non ha una Costituzione scritta, tutto diventa possibile.
L'imprevisto sviluppo è stato reso possibile da due fattori. Il primo è che il governo britannico dispone di un software che permette di raccogliere le firme direttamente per via elettronica, andato addirittura in tilt per la quantità di richieste. Il secondo è che la volontà di cancellare la Brexit viene soprattutto dai giovani, più in confidenza con l'informatica, i quali hanno votato in massa per il no e ora, come si è espresso uno studente di Oxford, si ribellano al fatto che «un gruppo di pensionati abbia condizionato il nostro futuro» o, come ha detto un altro, «i nostri nonni odino gli stranieri più di quanto amino noi». Ma certamente anche una parte di coloro che in provincia hanno votato per la secessione, spaventati dalle conseguenze su settori che interessano anche loro, come il costo delle vacanze all'estero o il funzionamento della Premier League, sono oggi pentiti della tempesta che hanno scatenato.
Rimane da vedere quali possibilità di riuscita abbia l'iniziativa. Formalmente, la Brexit assumerà valore legale solo dopo che il governo avrà invocato l'art.50 del Trattato di Lisbona, e Cameron ha anticipato che questo avverrà solo in ottobre, per iniziativa del nuovo leader che i Conservatori si sceglieranno nei prossimi mesi. Non è affatto detto che questi sia Johnson, leader del «Leave» ma inviso a molti nel partito, e potrebbe anche essere un eurofilo interessato a perseguire questa strada. Sempre in base all'art.50, ci sono poi due anni di tempo per sciogliere il matrimonio, durante i quali la Gran Bretagna resta membro della Ue. Il problema è che l'Europa, un po' per ragioni pratiche, un po' per rivalsa, chiede che le trattative vengano invece avviate in tempi rapidi, sulla base dello slogan «o dentro o fuori». Il concetto è stato ribadito sia da Juncker, sia, ieri, dai ministri degli Esteri dei sei Paesi fondatori. Tuttavia, agli osservatori non è sfuggito che la Merkel abbia invece esortato alla calma.
Ci sono due precedenti che giocano a favore dell'iniziativa. Nel 1992, i danesi votarono «no» alla ratifica del Trattato di Maastricht, ma neppure un anno dopo lo trasformarono in sì. La stessa cosa accadde agli irlandesi, che in prima istanza bocciarono il Tratto di Lisbona nel 2008 ma se ne pentirono l'anno dopo approvandolo a stragrande maggioranza. È vero che in entrambi i casi, la «conversione» avvenne sotto la pressione degli altri europei, mentre nel caso inglese questa non sembra (per ora) esserci.
Ma dal momento che siamo in terra sconosciuta, che ci sono in ballo interessi enormi e che il ripensamento degli inglesi appare genuino, un rientro della Gran Bretagna - certo con la coda tra le gambe e senza i privilegi strappati da Cameron per cercare di vincere il referendum - non può essere escluso a priori.
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