«Tutto il mio dolore è esploso a quarant'anni. È stato il mio corpo a dirmi che non potevo più sopportare quel peso. E sono cominciati gli attacchi di panico: in diretta, mentre conducevo il telegiornale, sudavo, tossivo, andavo in affanno, non riuscivo più a parlare». Gaia Tortora per la prima volta racconta pubblicamente il malessere che l'ha colpita una decina di anni fa quando all'improvviso il mostro che teneva dentro di sé è sgusciato fuori: un mostro creato dalla rabbia per l'ingiustizia subita da suo padre Enzo, la più famosa vittima di errori giudiziari, dalla sua famiglia e da lei stessa, che aveva 13 anni quando Tortora fu arrestato (era il 1983) e portato via in manette. «Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno ai miei colleghi, solo le amiche più intime sanno qualcosa». Gaia ora ha 51 anni, è vicedirettrice e capo della redazione politica del TgLa7 e conduttrice di Omnibus, programma mattutino della rete di Cairo.
Tu hai un'immagine di donna forte, combattiva e agguerrita, come mai hai deciso di far conoscere ora queste tue fragilità?
«Proprio perché mi descrivono tutti così. E invece so quanto sia difficile la vita per chi soffre di attacchi di panico, ci si vergogna, si cerca di nasconderli. Anche io me ne vergognavo. E dunque spero che la mia testimonianza possa aiutare altri che ne sono colpiti, far capire che può capitare a chiunque e, soprattutto, che se ne può uscire».
E tu come ci sei riuscita?
«Prendendo consapevolezza di quello che mi stava accadendo. Quando ho capito che soffrivo di attacchi di panico, sono andata in terapia e ho affrontato tutte le cose che tenevo chiuse dentro di me come in un buco nero. In fondo a quel tunnel c'ero io da piccola con tanto di quel dolore che nemmeno immaginavo. Ero come una bomba a orologeria: prima o poi l'esplosione avviene».
Come è successo?
«In quel periodo conducevo un notiziario flash al mattino, direttore del TgLa7 era ancora Antonello Piroso. A un certo punto mi sono bloccata: ho tagliato tutto, salutato e mi sono accasciata al suolo. Subito la regia ha mandato la pubblicità. Ho pensato che fosse solo un momento di stanchezza, di pressione bassa. Poi si è ripetuto molte volte, anche quando conducevo il telegiornale delle venti nei fine settimana in alternanza con Mentana: mi impappinavo, respiravo a fatica, arrivavo alla fine in affanno. Per giustificarmi dicevo che mi ero strozzata con le noccioline, che avevo il raffreddore, che non stavo bene Apparire in tv era diventata una sofferenza».
Ci sono voluti quasi 30 anni perché quella crepa si aprisse
«A 13 anni, quando mio padre è stato messo in prigione, mi è crollato in mondo addosso: ero una ragazzina alle porte dell'adolescenza. Qualche cretino per strada mi facevo il gesto della manette Avevo due possibilità: buttarmi via o incanalare questo dolore in qualcosa che mi facesse vivere. Ho scelto la seconda: quella del lavoro duro, tenace, della passione per il giornalismo, senza vittimismo».
Ma il buco nero era rimasto lì
«L'inconscio prima o poi viene a galla. Io avevo già cominciato un percorso di conoscenza di me stessa che mi ha poi avvicinata al buddismo. Ma quando crolli ti devi sedere, prenderti del tempo, affrontare quello che il tuo corpo ti sta comunicando e, una volta che ci hai fatto i conti, imparare a conviverci. Il dolore non passa, ma hai una cassetta degli attrezzi per maneggiarlo».
C'è ancora rabbia dentro di te?
«Rabbia no, determinazione sì. Mi domando ancora perché sia accaduta una cosa del genere, perché un innocente abbia dovuto affrontare quel calvario, perché nessuno abbia mai pagato per quanto è successo. Mi domando perché dopo 30 anni in questo Paese non sia cambiato nulla, perché non ci sia stata una riforma della giustizia. Perché ci siano ancora i casi Palamara e Di Matteo».
Tuo padre è stato messo alla gogna oltre che dalla giustizia anche da una certa stampa.
«C'è ancora la cattiva abitudine di processare le persone sui giornali e nell'opinione pubblica. I giornali si dividono per tifoserie, come nei derby, siamo ancora rimasti agganciati alla logica di berlusconismo e anti-berlusconismo. E, allora, quando si straparla di innocenti in cella mi inalbero, divento un caterpillar».
Come è accaduto nella lite con Marco Travaglio, che hai mandato a quel paese quando ha scritto che «non c'è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere».
«In questo paese va così: Travaglio può insultare chiunque, perché cane non morde cane, non ci si mette contro di lui, in un certo ambiente se dici alcune cose è difficile farsi accettare, ma io ho detto e dirò sempre quello che penso. Ormai lui mi fa tenerezza. Ma le parole hanno un peso: non lo faccio solo per mio padre, ma per tanti altri, cui posso dare voce avendo io una veste pubblica».
Insieme a tua sorella Silvia sei diventata un simbolo
«Ricevo tantissime lettere, soprattutto di parenti disperati perché un loro caro è in carcere. Mi sento male quando le leggo, perché quella era la battaglia di mio padre (Dare voce a chi voce non ha), cerco di rispondere per quel che posso, di aiutare, di indirizzare, di dare una parola di conforto. C'è un mondo che non viene rappresentato, un mondo di persone che affrontano con dignità e compostezza un'ingiustizia. Mi chiedo perché Pd e M5s non abbiano votato in commissione al Senato il dl per istituire una Giornata nazionale in memoria delle vittime degli errori giudiziari».
Perché hai deciso di fare la giornalista nonostante abbia visto tuo padre maltrattato dalla stampa?
«Non voglio certo darmi la patente della giornalista corretta, da ragazza pensavo solo che volevo fare questo mestiere in maniera corretta e non drogata. Non mi frega niente se qualcuno pensa ancora che mi ha aiutato essere la figlia di Tortora: mi sono fatta un mazzo grande così, tanta gavetta per arrivare fino a qui».
Da Teleroma 56 a Telemontecarlo a Telepiù fino all'approdo a La7. Dove Mentana ti ha voluta anche a condurre il tg delle venti
«Sì, è stata una grande responsabilità e fatica. Ma io preferisco stare dietro le quinte, in regia. Tutti mi dicono che sono una gran rompipalle, anche Enrico: gli dico sempre quello che penso, ci scontriamo, ma alla fine nel 90 per cento dei casi ha ragione lui. In dieci anni avremo litigato tre volte e non mi ricordo neppure perché».
Come fai a stargli dietro in quelle maratone infinite?
«Vi assicuro, non ci prendiamo qualche sostanza. È questione di adrenalina. Lui è lucido, non si fa cogliere dall'ansia e si fa venire idee in continuazione. Poi, con i social è tutto più facile: possiamo stanare i politici e spostare gli inviati in tempi velocissimi».
E come fa una donna a fare la madre di due ragazze, Beatrice (21 anni) e Costanza (18), la vicedirettrice e la anchorwoman?
«Con tanto lavoro e sacrifici. Ora è più facile perché le mie figlie sono grandi. Ma quando erano piccole mi è costato: non ero presente al primo giorno di scuola perché ero in conduzione. Sono cose che ti rinfacciano, ma un giorno quando saranno madri loro capiranno».
La tua di madre, Miranda Fattacci, è stata una colonna
«Si è presa un macigno sulle spalle: me e mia sorella e tutta la situazione. Quando hanno messo in carcere mio padre erano già separati da tempo, ma il loro rapporto si è rinforzato. Come è successo a me. Lui era un uomo famoso, conduceva Portobello: io ero piccola, vivevo a Roma, lui a Milano, ricordo che andavo a trovarlo, mi portava in studio. Dopo l'arresto, mi scriveva dal carcere, mi chiedeva degli studi, della Roma, dei fidanzati: abbiamo costruito una maggiore intimità. Anche negli anni che ci sono rimasti prima che se ne andasse (nel 1988) cercava di starmi vicino: io ero un po' scapestrata, mi bocciarono due volte, lui nonostante le battaglie giudiziarie e politiche, cercava di farmi capire l'importanza di studiare il latino».
Cosa ti direbbe oggi tuo padre?
«Che non gli piace quel che sta succedendo in questo Paese ma che è fiero di me».
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