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"Io gambizzato dalle Br Una follia equiparare le vittime ai carnefici"

L'ex Dc Iosa: «Gli assassini facciano mea culpa invece di nascondersi dietro l'ideologia»

"Io gambizzato dalle Br Una follia equiparare le vittime ai carnefici"

Nessun approccio talebano è utile per spiegare la strategia della tensione e degli opposti estremismi sia per il terrorismo rosso che per quello nero. Chi ha sbagliato deve pagare e non illudersi della proprio innocenza ideologica che giustifica l'assassinio politico! Apprezzo, però, chi con discrezione e misura, dopo avere espiato la propria pena per gli errori del passato, si è riacquistato una considerazione e una identità sociale, familiare e professionale di tutto rispetto, senza concedergli il diritto all'oblio. Non si può pretendere un abbraccio misericordioso su fatti terroristici che hanno lastricato di sangue le strade e le piazze del nostro Paese. Lasciamo che siano certi sprovveduti a predicare l'equiprossimità e a equiparare le sofferenze delle vittime a quelle dei carnefici, pur di smussare i contrasti e di riscrivere faziosamente la storia degli anni di piombo.

I famigliari delle vittime e i feriti non sono stati portatori di interessi politici, ma appartenevano alla società civile e nulla hanno da spartire con gli ex terroristi, né sono in grado o tenuti a capire le ideologie politiche e le farneticanti dichiarazioni strategiche dei teorici e dei protagonisti della sovversione armata, che ha provocato una tragedia nazionale che non è stata ancora capita nella sua gravità. Non si fa la rivoluzione in democrazia, contro l'ordinamento costituzionale dello Stato, per cambiare le regole e portare il «paradiso del comunismo leninista» in Italia.

Gli errori dei terroristi sono stati spaventosi con tutto quel sangue di vittime innocenti. Abbiamo vissuto bollettini di guerra e le uccisioni ci hanno fatto riflettere che nessuno delle vittime aveva colpe di nessun tipo. Tutto questo ha aperto gli occhi ai gruppi extraparlamentari e agli stessi simpatizzanti eversivi. Come non può esistere il diritto all'oblio, non può esistere il diritto alla riabilitazione storica del crimine commesso, in virtù di una riconciliazione frutto di un baratto «Verità Impunità». Il delitto va sempre e comunque condannato e mai giustificato o nobilitato per faziosità ideologica o per dabbenaggine di chi perdona per liberarsi dai mostri che lo affliggono. Gli ex, per uscire dal tunnel, devono liberarsi da un residuo di mentalità vetero rivoluzionaria, con la narrazione autoreferenziale, nostalgica e, magari, eroica della loro militanza e devono mutare anche il linguaggio che spesso ricalca il lessico terroristico. Tale narrazione vanifica l'esplicito rifiuto della radicalizzazione della violenza contemporanea.

Io ricordo tutto e non sono uno sbirro! Non cerco il male o il nemico, perché questo è compito dei moralisti e degli angeli sterminatori. Non cerco l'innocenza o la redenzione, perché è compito dei preti, dei santoni e dei fanatici vetero-comunisti, né come vittima voglio diventare persecutore, né rendere «martiri» gli ex terroristi, che si lamentano di avere sofferto le pene carcerarie mentre si consideravano eroi. Non sono un talebano e tanto meno un guerrigliero della memoria, ma ho sempre cercato il dialogo e la riconciliazione possibili, a condizione che gli ex terroristi si assumessero la responsabilità, coscienti del male commesso e di non essere stati eroi per giusta causa.

Ricordo che, fra il pubblico del mio Circolo culturale Perini a Quarto Oggiaro, un giovane di 19 anni mi contestò in un pubblico dibattito, dicendo: «Con la Democrazia Cristiana non si dialoga, ma si spara». L'anno dopo, questo giovane (Roberto Adiamoli) imbavagliato e incappucciato, il 1° Aprile 1980, faceva parte del commando delle brigate rosse che organizzarono una rappresaglia per vendicare i quattro terroristi uccisi dai carabinieri dell'antiterrorismo in via Fracchia a Genova dai carabinieri e che condannarono a morte me e altri tre amici democristiani nella sezione di via Mottarone 5 a Milano. All'ultimo momento, anziché spararci alla testa come avevano deciso, non essendoci noi inginocchiati, ebbero un momento d'esitazione e ci spararono alle gambe, perché assistevano alla esecuzione una quarantina di soci. Il mio sparatore fu Roberto Adiamoli.

Bisogna farsi carico del dolore dei familiari delle vittime e di una «memoria condivisa» per continuare a stringerci le mani; per segnare una svolta di pacificazione; per chiudere un'epoca di odio e di violente contrapposizioni.

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